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Bancarotta fraudolenta a Molfetta, sequestrati beni per oltre 14,5 milioni di euro

Terreni, un capannone industriale in costruzione, quattro appartamenti, crediti, disponibilità finanziarie e altri beni per un valore complessivo di oltre 14,5 milioni di euro sono stati sequestrati a due società di Molfetta attive nel settore immobiliare e dell'energia. Cinque persone, tra cui gli amministratori di fatto e di diritto - quest'ultimo secondo gli inquirenti era…

Terreni, un capannone industriale in costruzione, quattro appartamenti, crediti, disponibilità finanziarie e altri beni per un valore complessivo di oltre 14,5 milioni di euro sono stati sequestrati a due società di Molfetta attive nel settore immobiliare e dell’energia. Cinque persone, tra cui gli amministratori di fatto e di diritto – quest’ultimo secondo gli inquirenti era un «mero prestanome» – sono indagate, tra l’altro, per bancarotta fraudolenta, sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, ricettazione e riciclaggio.

Il provvedimento di sequestro riguarda le province di Bari, Foggia, Treviso e Padova ed è eseguito dai finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria del capoluogo pugliese.

Il provvedimento arriva nell’ambito di complesse indagini, delegate dalla Procura di Trani ai finanzieri baresi, aventi ad oggetto la gestione di diverse società riconducibili a uno stesso “centro di interessi” familiari, attive nel settore florovivaistico e di produzione di energia.

In particolare, gli immobili e i crediti oggi sequestrati costituivano asset aziendali oggetto di un’operazione societaria avvenuta tra due società molfettesi coinvolte nella vicenda giudiziaria.

Stando a quanto emerso dalle indagini, la prima società, dichiarata fallita dal tribunale di Trani nell’aprile 2020, «aveva debiti per quasi 20 milioni di euro nei confronti di un’impresa controllata, derivante da una “gestione centralizzata della tesoreria” (il cosiddetto “cash pooling”)». In questo modo, «la “liquidità” di un “gruppo societario” viene accentrata presso un’unica società (“cash pool leader”) che è in grado di gestirla al meglio “dirottandola” verso gli altri soggetti economici che ne hanno bisogno». La curatela della controllata, anch’essa fallita nell’ottobre del 2011, «aveva promosso, inizialmente, nei confronti della controllante un procedimento civile al fine di ottenere il pagamento del credito vantato», ciò nonostante, proseguono gli inquirenti, «nell’aprile del 2017, l’assemblea straordinaria della società controllante approvava una operazione societaria (cosiddetta “scissione parziale proporzionale”), finalizzata a trasferire a una società costituenda (mai divenuta operativa) beni di rilevante valore, tra i quali, tra gli altri, un terreno e un capannone industriale siti a Molfetta (del valore di circa 4,5 mln di euro), tre appartamenti ubicati a Candela (del valore complessivo di oltre 1 mln di euro), crediti verso terzi per circa 1,7 mln di euro».

L’operazione societaria, secondo gli inquirenti, avrebbe «consentito alla società controllante di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, con riferimento agli anni d’imposta dal 2004, per un ammontare di circa 5,4 mln di euro, comprensivo di sanzioni e di interessi, rendendo inefficace la procedura di riscossione coattiva da parte dell’Agenzia delle Entrate».

Le indagini avrebbero consentito di acquisire un grave quadro indiziario nei confronti delle cinque persone indagate. Un ruolo importante sarebbe stato rivestito da una stretta collaboratrice dell’amministratore (di fatto) delle società coinvolte, che «si adoperava fattivamente per reperire i documenti necessari a favorire la stipula dal notaio dell’atto di scissione nel più breve tempo possibile, in considerazione delle azioni giudiziarie civili pendenti».

La ricostruzione dei rapporti intercorsi tra le varie imprese coinvolte «avrebbe consentito, altresì, di accertare la corresponsione di circa 30mila euro al “prestanome” utilizzato per perfezionare l’operazione societaria in esame. In particolare, tale somma, derivante da ulteriori condotte appropriative a danno di altre società riconducibili al medesimo contesto familiare, dopo plurime movimentazioni bancarie sarebbe stata versata alla “testa di legno” giustificando il “passaggio di denaro” con contratti di finanziamento ritenuti “simulati”», concludono gli inquirenti.

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