Árpád Weisz è stato uno degli allenatori più importanti della storia del Bari. Ha allenato i galletti all’inizio degli anni trenta, portando i biancorossi a conquistare un’importante salvezza in Serie A contro il Brescia, sul campo neutro di Bologna. I tifosi attendevano notizie via radio, accalcati in piazza Massari. Prima di Weisz, il ruolo dell’allenatore era molto diverso da quello che intendiamo oggi. Era una sorta di accompagnatore, un maestro di ginnastica o in alcuni casi un giornalista come Vittorio Pozzo che, dopo aver conquistato i Mondiali del 1934 tornò di corsa in albergo per scrivere il pezzo da mandare al suo giornale. Quello in cui annunciava che l’Italia era diventata campione del mondo. Árpád Weisz, di origini ungheresi, era ebreo. Studiava e divulgava tattica prima che la tattica diventasse l’ossessione degli allenatori, rivoluzionò il calcio dal punto di vista della metodologia di allenamento, dell’alimentazione, persino della psicologia. Fu mago prima del mago: Helenio Herrera. Uno così non poteva che destare l’attenzione delle grandi squadre dell’epoca: l’Inter prima, il Bologna “che tremare il mondo fa”, poi. Fino a quando non fu costretto a lasciare l’Italia, a scappare, a causa delle leggi razziali. Andò ad allenare in Olanda, ma nel 1942 fu arrestato insieme a tutta la famiglia e portato ad Auschwitz, dove morì insieme a sua moglie e ai due bambini. Nelle camere a gas. Nella settimana della memoria, sempre troppo corta al di là degli anniversari e dei palinsesti televisivi che ogni anno ripropongono La vita è bella, giova ricordare chi è stato Weisz, sebbene siano pochissime le persone in vita che possono raccontarlo dal vivo. Ma nello sport le storie si tramandano di padre in figlio, di nonno in nipote, assumono i contorni della leggenda, sfumando la cronaca, come giusto che sia.
«I tifosi lo osannarono, al rientro, portandolo in trionfo da piazza Massari fino alla porta di casa sua in via Podgora, al numero 48. Un supplizio per un timido come lui» scrive Matteo Marani nel suo libro Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo.
L’ultimo riferimento a Weisz sulla stampa sportiva barese risale al maggio 1939. Su Cine-Sport non si cita neanche il nome dell’allenatore ungherese. Una memoria dimenticata, non perpetrata, per un uomo e un allenatore che meriterebbe un film, una mostra, uno spettacolo teatrale.
La Ssc Bari lo ha ricordato con un post su Facebook, sarebbe bello dedicargli anche una maglietta, un segno ancora più tangibile durante la prossima partita. La memoria ha senso se fa riflettere, se genera narrazioni nuove e rinnovate, se riporta in vita cose omesse, dimenticate. Come la storia dell’allenatore più innovativo che il Bari abbia mai avuto, il campione che veniva già allora da un mondo disfatto, è un austro-ungarico, l’uomo prima osannato e portato in trionfo, poi dimenticato. Non da noi, non dalla nostra memoria di tifosi e appassionati.