Affidarsi ad una memoria storica della scena politica italiana per riflettere sulla instabilità che la sta investendo, di questi tempi è una scelta obbligata. Se poi la stessa persona ha messo nero su bianco in un libro una proposta per il Paese, l’occasione di sentirla diventa irrinunciabile..
Senatore Quagliariello, perché ha maturato l’esigenza di scrivere“ La società calda”?
«Il libro parte da una constatazione: alla prova di sforzo della pandemia, modelli sociali che sembravano ‘vincenti’ hanno mostrato tutti i loro limiti. Le grandi aggregazioni urbane, i processi produttivi standardizzati, le relazioni umane improntate a un freddo efficientismo e ridotte all’essenziale, hanno subìto ripercussioni più pesanti dal punto di vista sia sanitario che socio-economico. Si è fatta invece strada la potenzialità di quei contesti fondati su un tessuto di relazioni familiari e sociali solide e resistenti, su un’economia di prossimità, sulla valorizzazione delle specificità. Un modello proprio delle aree fragili del Paese, soprattutto del Mezzogiorno e dell’entroterra appenninico, sul quale c’è tanto da lavorare per superare tare ataviche, ma che se ben interpretato può trainare la ripartenza dell’intero Paese. In questo libro, a partire dagli aspetti demografici, economici e dai grandi capitoli del Pnrr, vengono proposti degli spunti e un metodo di lavoro per provare a non disperdere questa opportunità per certi versi inattesa».
Alla pandemia ora si è aggiunta anche la guerra. Che si fa?
« Su una prospettiva di ripresa economica al di sopra delle aspettative si è abbattuto lo spettro dell’incertezza, dell’inflazione, del rincaro energetico, delle difficoltà nell’approvvigionamento alimentare; uno spettro aggravato da decenni di politiche miopi in diversi di questi ambiti. E’ evidente che bisogna ripensare in chiave ancor più strategica il Pnrr, cercando di recuperare i ritardi accumulati ad esempio sul tema dell’energia e utilizzando quest’occasione per archiviare il mito infelice della decrescita e del ‘no’ a prescindere. La situazione è molto difficile e il prezzo da pagare a difesa dei valori occidentali di libertà è indubbiamente alto. Questo deve spingerci ad abbandonare piccoli cabotaggi per proiettare le scelte di politica di sviluppo in chiave assolutamente strategica».
Come si costruisce l’Italia del domani? Anche politicamente parlando.
«Innanzi tutto recuperando i princìpi della competenza, del pragmatismo, dell’idealità e della concretezza come fattori non antagonisti ma complementari. In questo senso l’esperienza di governo di Mario Draghi, al netto della necessità di fare i conti con una maggioranza a dir poco composita, ci ha insegnato molto ed è un patrimonio da non disperdere».
La politica e le sue macerie, a destra come a sinistra. Ne vogliamo parlare?
«La doppia frattura della pandemia e della guerra ha sconvolto tutto. Ovviamente non ha cancellato le differenze, anzi. Ma ha rivelato la necessità di ridefinire su basi nuove e programmatiche le culture e i contenitori politici. Per dirla senza giri di parole, se all’interno di una coalizione non ci si intende su temi chiave come la collocazione internazionale o le politiche di sviluppo, vuol dire che quella coalizione diventa una convenienza algebrica e non una proposta di governo. E questo vale per tutti gli schieramenti. Allora, o si recuperano visioni comuni, o è meglio ripartire da zero facendosi un giro di proporzionale per ricostruire su fondamenta nuove una democrazia maggioritaria degna di questo nome».
Tra un mese le elezioni amministrative. Saranno uno spartiacque per le coalizioni?
«Più che uno spartiacque, la cartina di tornasole di una situazione che in troppi fanno finta di non vedere. Guardando al centrodestra, ci si presenta divisi in molti comuni. La coalizione è unita solo laddove coincide con un vero progetto di governo locale, come all’Aquila. In altri luoghi strategici, come la Sicilia, la sfida è soltanto rimandata. Come continuare a far finta di niente e non rendersi conto che c’è bisogno di fare un tagliando al sistema politico? Credo che dopo le amministrative sarà inevitabile».
Stando al centro, come pensate di poter intercettare da un lato i voti in uscita dal M5s e dall’altro di fare da apripista anche per il mondo del civismo?
«Da decenni non c’era uno spazio al centro così significativo. E per centro non si intende il luogo dei trasformisti o degli invertebrati, ma lo spazio politico liberale interprete dei valori della cultura occidentale e dotato di cultura di governo. Si tratta di un’area che può essere attrattiva per molte realtà, soprattutto in momento nel quale, come dicevamo, le fratture proposte dalla storia stanno portando a una ricatalogazione politica ampia e diffusa».
Infine, parlando in particolare del centrodestra lei ha detto che “serve un esame di coscienza ed un ritorno alle origini liberali”. Ne è ancora convinto?
«Serve interrogarsi sulle basi programmatiche dello stare insieme. Se, come auspichiamo, una prospettiva di coalizione troverà ancora delle ragioni, queste non potranno non avere come uno dei baricentri principali la cultura liberale e conservatrice. Di fronte agli snodi della storia, quelle radici si confermano come le sole in grado di dare risposte all’altezza delle sfide del nostro tempo, di attrarre ampi segmenti di elettorato e di coltivare una prospettiva di governo solida e duratura».