Dei movimenti di rivolta degli anni Sessanta e Settanta, probabilmente quello che ha influenzato maggiormente la società italiana è stato il movimento femminile e femminista. Mentre le trasformazioni radicali del lavoro e del sistema scolastico hanno smorzato le voci dei soggetti collettivi dei lavoratori, dei disoccupati e degli studenti, l’emancipazione delle donne è andata avanti con modalità, spesso latenti, ma incisive e durature.
Rispetto alle precedenti generazioni le donne, soprattutto in contesti metropolitani, stanno modificando sostanzialmente le dinamiche di ruolo sia all’interno della coppia che verso l’esterno, trasformando, almeno in parte, quel che ancora rimane della famiglia nucleare (poco più di un quarto del totale dei nuclei familiari). Si tratta in prevalenza di mutamenti culturali e delle nuove forme di vita femminili che, non a caso, fanno vacillare le antiche certezze del millenario dominio maschile.
Nel nostro Paese, le donne studiano più degli uomini: le laureate sono il 57% e conseguono risultati migliori, se la media del loro voto di laurea è 104 rispetto a quello dei laureati uomini che è 102. Sono la maggioranza anche negli studi post universitari: dottorati di ricerca, master e corsi di specializzazione. E nei settori di istruzione, salute e lavoro sociale sono addirittura sovrarappresentate.
Le donne che vivono in Italia sono 31 milioni, cioè il 51,3% della popolazione e le occupate, circa 9 milioni e mezzo, poco più del 42% del totale degli occupati. È del tutto evidente il gender gap occupazionale tra donne e uomini e la distanza ancora enorme per raggiungere una partecipazione paritaria al mercato del lavoro. Il 25% delle donne, vale a dire una su quattro, potrebbe e vorrebbe lavorare, ma non può. L’Italia è all’ultimo posto in Europa per occupazione femminile. Non solo, una donna su tre svolge lavori part-time, spesso imposti dalle aziende, e anche nei casi in cui potrebbe sembrare una scelta della lavoratrice, è invece perlopiù una decisione “volontaria” assunta per dedicarsi alle occupazioni domestiche e di accudimento.
Nonostante i risultati raggiunti dalle donne nel campo dell’istruzione e ai mutati orientamenti culturali, ancora si assiste a un netto divario dei comportamenti, maschili e femminili, nell’accesso al mercato del lavoro. Un esempio emblematico: il tasso di occupazione degli uomini aumenta al crescere dei componenti del nucleo familiare, per le donne viceversa un figlio, o più di un figlio, comporta la fuoriuscita dal mercato del lavoro, spesso definitiva. Inoltre, le donne che lavorano, pur possedendo titoli e competenze almeno pari ai loro colleghi uomini, difficilmente raggiungono ruoli apicali e i dati statistici ne mostrano l’irrilevanza.
Un ulteriore fenomeno che dovrebbe destare preoccupazione sociale è la povertà di genere. Le donne sono colpite da forme di deprivazione molto più degli uomini, in ragione di numerosi fattori socio-economici tra cui, come si diceva, la scarsa partecipazione al lavoro. E i loro percorsi lavorativi subiscono maggiori interruzioni rispetto a quelli maschili, il che comporta un minore reddito da lavoro e una più bassa contribuzione pensionistica.
Purtroppo nelle regioni meridionali va perfino peggio: il livello occupazionale delle donne assume i connotati di un vero e proprio dramma sociale. La percentuale di disoccupazione e inattività raggiunge i 42 punti. Un fattore emerso recentemente si intreccia con le antiche cause strutturali della disoccupazione femminile colpendo, in particolare, le giovani donne con elevato titolo di studio: la sovra istruzione (overeducation) o anche un mismatch, un disallineamento, tra le conoscenze acquisite durante il percorso formativo e quelle richieste dal mercato del lavoro. È frequente al Sud che le donne svolgano lavori per cui sarebbe sufficiente un titolo di studio più basso di quello posseduto.
Il fatto che l’Italia meridionale, ancor più delle regioni centro-settentrionali, sia caratterizzata da una struttura della domanda di lavoro orientata verso basse qualifiche innesca un altro motivo per il ritiro delle donne dal mercato del lavoro. In primo luogo si verifica un raffreddamento delle aspettative ossia, dopo un periodo di tempo trascorso nella ricerca attiva di un lavoro, le scarse opportunità inducono uno scoraggiamento che porta alla temporanea, o spesso definitiva, cessazione della ricerca di un lavoro. Le donne meridionali, anche se giovani e con titoli di studio medio alti, rischiano così di restare intrappolate negli impegni familiari e domestici che, gravando essenzialmente su di loro, possono condurre nella pericolosa zona d’ombra dell’inattività.
E lo stato di inattività, oltre a sprecare i preziosi talenti femminili, assolve coloro che hanno la responsabilità delle politiche attive del lavoro. Le statistiche che riguardano l’occupazione e la disoccupazione sono calcolate, oltre che sugli occupati, sui disoccupati che cercano attivamente un lavoro: chi decide di astenersi dalla ricerca attiva di un’occupazione sfugge alla contabilità statistica, rischiando di trasformarsi in un irrilevante fantasma sociale.
Le donne studiano più degli uomini, conseguono migliori risultati, rappresentano una quota preponderante delle risorse intellettuali del nostro Paese, continuare a sprecare il loro contributo non solo è iniquo ma economicamente e socialmente miope.
Bentornato,
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