Al di là del contrappasso sardonico, o se volete grottesco, l’arrivo di un padano come Tommaso Foti alla guida del Ministero non muterà le sorti del Sud. Il Sud, come del resto l’Italia, è strutturalmente incapace di ribellarsi e rassegnato al suo inarrestabile declino. Ovvio chiedersi perché. Perché dall’Unità nazionale è una sorta di colonia, territorio e popolo al servizio del Nord? Perché, dopo le glorie antiche dei popoli autoctoni, della Magna Graecia e di Roma, dei re e dei popoli stranieri, di Federico che qui trovarono la loro patria, da secoli è assuefatto alle malefatte? Perché è, come ancor di recente ignominiosamente affermato da qualche politico, antropologicamente incapace di capire il meglio e di evolversi in direzione di esso? Perché è governato da una classe dirigente minuscola e piccina, dedita, in contrasto con la grandezza passata dei suoi uomini e donne, a proteggere privilegi che sconfinano in caste e cosche anziché perseguire il bene comune?
Perché i migliori se ne vanno? Perché, perché… Saranno mille i perché probabilmente, anzi certamente. Al netto della ridicola deriva razzista nascosta nella ipotizzata deficienza antropologica, un pizzico di verità c’è in tutti quei perché. Eppure, né singolarmente né considerati tutti insieme, essi compongono una riposta esaustiva né forniscono una risposta.
È vero che il Sud è da sempre colonia. A scanso di equivoci lo era anche al tempo dei Borbone e del Regno di Napoli o delle Due Sicilie. Lo era quando Ferdinando IV inaugurò la ferrovia Napoli-Portici, quando celebrava la potenza industriale di Pietrarsa e Mongiana, di San Leucio e delle fabbriche di ceramica che, ben prima dei tempi moderni, avevano prodotto il miracolo del chiostro di Santa Chiara e di San Gregorio Armeno, di Caltagirone e di mille altri posti. Già allora il latifondo e gli agrari la facevano da padroni e braccianti e contadini puzzavano di fame oltre che di fatica maledetta e povertà senza rimedio.
È vero anche che il Sud è assuefatto alle malefatte ed al malaffare. I briganti ci provarono a ribellarsi contro coloro che affamavano il popolo, re Borbone e Garibaldi compresi, tutti fedifraghi e sempre schierati contro i più poveri e disgraziati. Ci provarono pure gli anarchici, senza esito pure loro. E da qualche parte spuntò il malaffare. Furbi e prepotenti, patriarchi e delinquenti incalliti trovarono terreno fertile e, in assenza dello Stato, pensarono di dettare le loro leggi, le leggi delle “famiglie”. L’autorità non c’era e la gente non aveva punti di riferimento a parte il parroco. A volte e non sempre. Lombroso, bontà sua, che di professione faceva lo scienziato in quel di Torino, riteneva che la colpa dell’arretratezza del popolo meridionale andasse attribuita, dritta dritta, alla conformazione della loro scatola cranica. Il cranio squilibrato, le mascelle troppo sporgenti e la fronte troppo bassa riducevano lo spazio per un naturale dispiegarsi del cervello e di conseguenza la loro capacità di seguire “virtute e canoscenza” risultava assai limitata. Ci costruì pure un museo con tanto di foto dei briganti rinominati delinquenti per naturale predisposizione, o per vocazione, ed espose una teoria di crani meridionali bella lunga ed articolata per quanti ne volete. Quel museo è ancora aperto, ed a ragione, se un ministro della Repubblica (“Povera Patria” cantava un grande interprete come Franco Battiato, siciliano doc) meridionale e siciliano in aggiunta, come Nello Musumeci, ha solo qualche giorno fa, in sede di presentazione del rapporto Svimez 2024, affermato che le ragioni del sottosviluppo meridionale sono, certo che si, lo si voglia o no, anche di natura antropologica, per la gioia degli epigoni del defunto professor Lombroso che, ultimamente, era stato un po’ dimenticato dai suoi compatrioti padani.
Altri argomentano che la colpa è della attuale classe dirigente che da quarant’anni almeno governa il Sud, incapace, corrotta e dedita esclusivamente a coltivare i suoi interessi e privilegi, dicono. Sta di fatto che da queste parti non ci si ribella. Al massimo si parte, si va via. Un tempo in Argentina, negli Usa o in Australia, adesso nelle metropoli nordiche o nelle megalopoli cinesi, arabe o americane.
Beh, sarebbe utile e necessario per capire, andare alla decapitazione di quel glorioso drappello di giovani e generosi rivoluzionari che nel 1799 provarono a cambiare la storia a Mezzogiorno. Dopo di allora nessuna rivoluzione attecchì a Sud (e a Nord). Nobili e plebei avevano introiettato il convincimento che per sopravvivere, contrariamente a quanto succedeva nella cugina Francia, bisognava blandire il potere, prenderlo di lato al massimo e mai affrontarlo di petto. E lo fecero. Tutti, a cominciare da generali, duchi, conti e baroni che aprirono le porte a Garibaldi fregandosene della plebe che continuò a puzzare di fame nonostante le promesse di distribuzione delle terre. Promesse reiterate all’avvento della Repubblica e rimaste incompiute mentre l’Europa provvide a dare il colpo di grazia all’agricoltura familiare e mediterranea e ai mestieri a quella connessi. Alla fine i “plebei” – leggi il popolo minuto ed abbandonato a sé o al malaffare – non potendo o non sapendo ribellarsi, si rassegnò a raccogliere le briciole che il potere lasciava cadere sotto forma di bonus, pacchi dono di fine anno, incentivo al lavoro nero e robe simili. Il cosiddetto ceto medio? Quello composto da professoresse e professori, insegnanti e intellettuali, professionisti, impiegati, quadri e dirigenti che un tempo, ancora trent’anni fa, mica secoli, erano la colonna vertebrale del Paese? Schiacciato verso il basso sino a convincerlo di scomparire anche dalla competizione elettorale.
Adesso siamo all’epilogo. Siamo all’ultimo atto della eliminazione del Sud come soggetto sociale, economico, geografico, politico addirittura. Il suo ruolo futuro? L’auspicata trasformazione in hub energetico d’Europa previa desertificazione a mezzo processi continui e crescenti di diaspora demografica, ovviamente. Tutto condito con le serpeggianti teorie neo-lombrosiane visto che il Sud non è in grado di badare a sé e nemmeno di esprimere un ministro autoctono.
Il plenipotenziario dell’attuale governo per Sud, Coesione e Pnrr, cioè il ministro pugliese Raffaele Fitto, ha fatto le valige per Bruxelles e al suo posto è arrivato un padano. Sì, sì, proprio un padano chiamato finalmente a illuminare le ragioni del sottosviluppo a Sud che non decolla anche perché i migliori se ne vanno, dicono in molti. Circa 100mila all’anno, tra laureati e diplomati, tutti giovani, forti eppure formati. Fanno venti miliardi di euro all’anno risparmiati dalle contrade settentrionali dove i ragazzi e le ragazze meridionali vanno a inquadrarsi senza speranza di ritorno. Ma la colpa è del Sud, ci mancherebbe altro. Perché il Sud non sa tenerseli i suoi ragazzi e le sue ragazze… deficit antropologico appunto, sussurrano… ma quale deficit antropologico se le ragazze e i ragazzi meridionali fate a gara a prenderveli tutti! Il razzismo lombrosiano vale solo per i genitori e non per i figli? Chiedere lumi al compassato ministro siciliano e anche al neo-ministro padano, chiamato al timone del Mezzogiorno senza risorse e politiche come una barca senza vela ed equipaggio, per ricevere qualche lume. Magari anche al neo-commissario europeo, pugliese doc.
E allora? Non è che ci sarà un’altra risposta ai mille perché del sottosviluppo del Sud? Per non andare in confusione nel rispondere a tale esorbitante questione ho ripreso in mano la storia di Enrico Mattei e di Adriano Olivetti, tutti e due profeti del diritto del Sud e dei Sud affacciati sul Mediterraneo a essere protagonisti della storia e della felicità. Con successo. Entrambi stroncati da chi predicava lo sviluppo abbarbicato tra l’Atlantico e il Mare del Nord. Ammainate le bandiere di Mattei e Olivetti, partì l’emigrazione dal Sud ad alimentare il miracolo economico che arrivava dall’Oceano, fecondava l’Europa centro-settentrionale e si fermava a ridosso della Padania. Non contento mi sono riletto i manuali di Smith e Ricardo che avevano definito i parametri del mercato, quello in cui produttori e consumatori fissavano prezzi e quantità sulla base della reciproca convenienza e necessità, e mi sono reso conto che quel mercato era stato distrutto a beneficio della speculazione finanziaria, del consumismo e della produzione infinita. Non contava più la soddisfazione dei consumatori e dei produttori ma il potere dei padroni/azionisti del mondo saldamente ancorati tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico con l’enclave araba, raggiunti, nel frattempo, dagli oligarchi che avevano preso a dominare il celeste impero e la tundra russa con buona pace di Lenin, Mao Tze e del vecchio comunismo. E ho ripreso Marx e Keynes e il nostro Federico Caffè che avevano teorizzato, in differenti modi, la presenza dello Stato in economia e mi sono reso conto che il governo era diventato una specie di re travicello manovrato dai padroni/azionisti dell’economia ipercapitalistica deviata. Così mi convinsi che il vero perché del sottosviluppo del Sud è nel paradigma economico-consumistico-finanziario che regge il mondo e che riduce tutti i Sud, quindi anche il Sud italico, al ruolo di polmoni/riserve/lande (chiamatele come volete) a disposizione del Nord, tutti i Nord.
Ci fu un tempo in cui in Italia lo Stato produceva energia, acciaio, automobili e anche panettoni, conserve e legumi in barattoli (assurdamente, secondo un professore che faceva il presidente del Consiglio a quell’epoca e successivamente il presidente della Commissione europea), navi, telecomunicazioni e ricerca avanzata in settori strategici. Lo Stato controllava la moneta e anche il debito pubblico, alimentava l’economia e interveniva nella produzione e calmierava il mercato, quello di Smith e Ricardo più o meno, e sosteneva industria e lavoratori, tutti, compresi quelli del ceto medio, producendo ricchezza per il benessere e la felicità della collettività. Adesso quello stesso Stato costruisce esclusivamente manovre finanziarie per far fronte ai diktat del mercato plutocratico e finanziario che minaccia il fallimento e compra tutto il comprabile mentre da questa parte si vende tutto quel che ha un valore, persino sanità e trasporti, poste e telecomunicazioni ed energia per pagare gli interessi sul debito che in una spirale perversa quanto infinita ingrassano la speculazione e impoveriscono nazioni e popoli. L’obiettivo dell’azione governativa non è più lo sviluppo del Paese ma la soddisfazione della bramosia di quanti dominano il mondo dai cda della iperfinanza speculativa che, dal canto suo, non ha più bisogno di nascondersi nei luoghi segreti del Club Bilderberg e anzi si offre al proscenio mondiale dalle montagne svizzere di Davos imponendo palesemente la propria volontà agli Stati i cui governanti, democraticamente eletti per adesso, sono, ahimè, loro succubi o servitori.
Dunque non vale inseguire i mille perché alla base del sottosviluppo del Sud. La questione fondamentale che tutti quei perché assomma in sé è la prevaricazione dell’attuale paradigma di potere. Di conseguenza va cambiato quel paradigma, se si vuole rompere la perversa spirale del sottosviluppo meridionale. Tale cambiamento è peraltro nell’interesse non solo del Sud ma dell’intera Nazione perché è destinata a diventare Sud anch’essa, tutta, senza distinzione tra Settentrione e Meridione. È anche nell’interesse del mondo che ha bisogno di nuovi equilibri e paradigmi per salvaguardare la pace tra i popoli e, finalmente, perseguire lo sviluppo del Mondo. In questa prospettiva le speranze del Sud, dell’Italia, dell’Europa e del mondo intero viaggiano con le prospettive del Mediterraneo. Solo un Mediterraneo restituito ai popoli che da sempre lo abitano, in Europa, Africa, Vicino e Medio Oriente, potrà restituire l’equilibrio alla Terra e all’umanità che la abita e all’italico Mezzogiorno. Prima se ne renderanno conto l’Italia e l’Europa intera, meglio sarà per tutti. Solo allora il Mezzogiorno finirà di essere un problema per tornare a essere la patria di Mattei e Olivetti (che era di Ivrea), di ragazze e ragazzi costretti a partire e di quanti sono rimasti a custodire la memoria dei padri.
Bentornato,
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