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L'”Elogio dell’ignoranza e dell’errore” di Gianrico Carofiglio: «Sono parte della condizione umana» – L’INTERVISTA

Il nuovo capitolo di una storia importante. Con il suo nuovo libro, “Elogio dell’ignoranza e dell’errore”, Gianrico Carofiglio si tuffa in un’analisi dei valori troppo spesso etichettati come negativi: l’ignoranza e l’errore. La sua riflessione, lontana dall’essere un mero esercizio intellettuale, esplora come questi aspetti della condizione umana possano diventare risorse preziose per la crescita…
gianrico carofiglio
(Foto Mauro Scrobogna / LaPresse)

Il nuovo capitolo di una storia importante. Con il suo nuovo libro, “Elogio dell’ignoranza e dell’errore”, Gianrico Carofiglio si tuffa in un’analisi dei valori troppo spesso etichettati come negativi: l’ignoranza e l’errore. La sua riflessione, lontana dall’essere un mero esercizio intellettuale, esplora come questi aspetti della condizione umana possano diventare risorse preziose per la crescita personale. L’ex magistrato e autore di bestseller si confronta con il fallimento, la paura di sbagliare e il coraggio di mettersi in discussione. In questa intervista, Carofiglio ci svela come un periodo di difficoltà professionale abbia trasformato il suo cammino, come scrittore e come uomo. Dalla sua Bari, terra di memoria e ispirazione, ci invita a rivedere il nostro approccio alla conoscenza e a vivere con la “mente del principiante”, sempre curiosi e pronti a imparare.

Nel suo libro “Elogio dell’ignoranza e dell’errore” esplora quei valori che spesso vediamo come negativi. Cosa l’ha spinta a compiere una riflessione così approfondita su temi che tradizionalmente sono associati alla colpa o al fallimento?

«Mi ha spinto la consapevolezza – cui sono arrivato poco a poco – che ignoranza ed errore sono parte inevitabile della nostra condizione umana, e che rifiutarli o negarli ci rende peggiori. Viviamo in un’epoca in cui l’apparenza di infallibilità è sempre più diventata una pericolosa maschera sociale, ma questa rigidità ci rende fragili. Riflettere su ignoranza ed errore significa imparare ad abitarli, a riconoscerli, e a usarli come strumenti di crescita. Mi viene da dire: gioiosi strumenti di crescita».

Quanto è importante secondo lei saper sbagliare?

«Essenziale. Non si può imparare davvero se non si è disposti a sbagliare. L’errore è un insegnante straordinario, ma solo se siamo disposti ad ascoltarlo. Il problema non è sbagliare, ma non accettare di averlo fatto, perché è il primo passo per ripetere lo stesso errore o per farne altri, peggiori».

In che modo il concetto di “shoshin”, apertura verso l’errore e l’ignoranza, può aiutarci a rivedere il nostro approccio alla conoscenza e al nostro quotidiano? Quali sono le implicazioni di questa filosofia nella vita moderna, così focalizzata sulla performance e sul successo?

«Il concetto giapponese di shoshin, la “mente del principiante”, è un antidoto alla rigidità mentale. Significa mantenere curiosità, apertura e umiltà. In un mondo ossessionato dalla performance e dalla competizione, questa filosofia ci ricorda che la vera crescita avviene quando siamo disposti a riconoscere di non sapere tutto e a metterci in discussione. Anche e soprattutto nei campi in cui siamo competenti».

Il suo passato da magistrato sembra risuonare nel suo saggio, in particolare nel capitolo dedicato agli errori di giudizio. Come ha vissuto la contraddizione tra il rigore delle sentenze e la comprensione che l’errore fa parte dell’essere umano? Ha mai avuto difficoltà ad applicare questa visione nel suo lavoro?

«Chi amministra la giustizia, chi si occupa di indagini deve essere consapevole della propria fallibilità andando alla ricerca di ragionevoli certezze. L’equilibrio si trova nel rigore del metodo: dubitare sempre delle proprie convinzioni, accogliere il dissenso come una risorsa, riconoscere che la verità giudiziaria è sempre, in qualche misura, una costruzione. Non si tratta di indulgere nell’incertezza, ma di lavorare con umiltà e responsabilità per costruire decisioni accettabili e dunque giuste».

Nel libro, cita anche una delusione professionale che l’ha segnato negli anni Novanta e che ha trasformato il suo percorso. Come quell’esperienza ha inciso non solo sulla sua carriera, ma anche sulla sua crescita come scrittore? C’è un legame tra quel fallimento e l’analisi che ora propone nel suo libro?

«Sì, c’è un legame profondo. A quell’epoca avevo una visione diversa del mio futuro, e quando mi sono trovato a un bivio inaspettato, ho dovuto rimettere in discussione tutto. È stato un periodo difficile, ma anche fondamentale: mi ha spinto a cercare una nuova strada, a esplorare la scrittura. Se non ci fosse stato quel fallimento, forse – probabilmente – non sarei diventato scrittore».

Il messaggio che sembra lanciare il suo libro è che la fortuna aiuta chi non teme l’insuccesso. Ci sono stati dei momenti della sua vita in cui ha avuto paura di fallire?

«Certo, la paura del fallimento è umana. Ma ho imparato che il modo migliore per gestirla è accettarla, senza lasciarle il controllo. La paura può paralizzare o spingere all’azione: dipende da come la affrontiamo. Il coraggio è il buon uso della paura».

Guardando indietro, qual è un errore che non rifarebbe?

«Non credo molto nel concetto di “errori da non ripetere”. Gli errori sono parte della vita, e anche quelli che vorremmo cancellare ci hanno portati dove siamo. Però, se dovessi indicarne uno, direi che avrei potuto imparare prima a dire di no, a non sentirmi obbligato a percorrere strade che non sentivo mie».

Lei, barese, nei suoi romanzi torna sempre qui in Puglia, pur vivendo altrove. Che rapporto ha con Bari?

«Bari è un luogo della memoria e dell’anima. Non è solo lo sfondo dei miei romanzi, ma un elemento narrativo essenziale. È una città che amo e che osservo con lo sguardo critico di chi l’ha vissuta intensamente. Il legame con la mia terra è profondo, ma non nostalgico: mi interessa raccontarla nella sua verità, nelle sue contraddizioni».

I suoi libri sono molto venduti: possiamo dire che ha scansato il fallimento come scrittore, diventando una penna di successo?

«Il successo editoriale è un parametro relativo. Quello che conta per me non è tanto vendere molte copie – il che naturalmente non mi dispiace – ma sapere di aver scritto qualcosa in cui i lettori, in modi sempre diversi, riescono a immedesimarsi. Il successo è un concetto scivoloso, va maneggiato con circospezione».

Dove si vede domani?

«Spero in luoghi dove posso continuare a imparare, a osservare il mondo con curiosità, e a scrivere senza perdere il piacere della scoperta».

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