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Solo l’intelligenza umana sa affrontare le incertezze: ecco perché l’IA non potrà superarla

Un umano è un organismo vivente che nasce attraverso la riproduzione sessuale e, dopo un periodo di vita, variabile per ciascun individuo e comunque limitato, muore, come tutti i viventi. Ha un corpo di cui è consapevole, ossia è autocosciente e possiede un dispositivo biologico e culturale potentissimo: il linguaggio, che gli permette di conversare con altri umani, di mentire e negare, di pregare e ingiuriare, di comandare e obbedire, di sedurre e manipolare, di inventare storie con personaggi e luoghi inesistenti. Ha una mente che non è solo il suo cervello: un organo necessario, certo, ma non sufficiente, poiché la mente è tra i soggetti umani che, reciprocamente, si riconoscono.

Noi siamo esseri sociali, a volte socievoli, e viviamo immersi, costantemente, in stati emotivi: quando asseriamo di essere emozionati è perché l’intensità, il tono di quell’emozione è particolarmente avvolgente, come lo sono, per esempio, rabbia e gioia, paura e impeto passionale. Le nostre decisioni molto spesso sono assunte in contesti incerti e situazioni ambigue che non hanno soluzioni intrinsecamente corrette. In questi casi emozioni e sentimenti svolgono un ruolo fondamentale spingendoci a non rinviare le decisioni quando è preferibile decidere velocemente. Non solo, intrecciandosi con logica e razionalità, ci aiutano ad assumere decisioni più efficaci.

Sin dall’inizio della nostra esistenza come specie, usiamo strumenti, attrezzi e protesi che ci permettono di estendere la nostra capacità di potenza e di trasformazione del mondo: dal bastone all’aereo supersonico, dal libro alle armi atomiche. Insomma siamo animali tecnologici. Da alcuni decenni disponiamo anche dell’Intelligenza artificiale (Ia). E così come è accaduto per altre tecnologie che hanno influenzato notevolmente la storia umana – si pensi alla introduzione della scrittura e all’invenzione della stampa – l’Ia ci divide in suoi detrattori e sostenitori o, come avrebbe detto Umberto Eco, in apocalittici e integrati.

L’intelligenza artificiale è un meccanismo sofisticato e potente, tuttavia non è un organismo: non ha, né potrà avere, le caratteristiche di un vivente umano, come quelle che ho descritto inizialmente. Può invece accumulare dati, informazioni, interi campi del sapere, mostrare una portentosa precisione di calcolo e “generare” informazioni nuove in relazione alle istruzioni (algoritmi) che riceve. L’Ia batte a scacchi i giocatori umani più forti, riconosce volti e voci a condizione che regole e giochi siano ben definiti e i contesti relativamente stabili. Può scrivere testi, con ChatGpt, molto simili a quelli che scriverebbe una mano umana, con una differenza sostanziale: il meccanismo dell’Ia non comprende, letteralmente, le domande che gli vengono formulate, cioè non pensa come un umano, genera parole e frasi correlate probabilisticamente con i dati e le informazioni possedute.

Se il futuro fosse molto simile al passato, le informazioni dell’Ia sarebbero utili più di qualsiasi congettura umana. In una tale condizione, l’Ia sarebbe di gran lunga più affidabile di quella umana. Ma sappiamo bene che la nostra specie ha da sempre vissuto nell’incertezza che, nel tempo attuale, è divenuta la caratteristica costitutiva. E l’intelligenza umana, pur con i suoi frequenti bias (errori cognitivi), si è evoluta e attrezzata per affrontare ambiguità e incertezza.

Un automa, a differenza di un vivente umano, non soffre né gioisce, non è autocosciente, non si innamora né si riproduce sessualmente, ha sì codici molto espressivi, ma non ha un linguaggio come il nostro. Non nasce né muore, tutt’al più, dopo la sua costruzione, si può spegnere e riaccendere.

Intelligenza umana e intelligenza artificiale sono incommensurabili, vale a dire radicalmente diverse. Sostenere che l’Ia possa raggiungere e superare l’intelligenza umana è fuorviante e non dà conto delle profonde differenze tra un congegno meccanico e un organismo vivente. L’Ia potrebbe essere, come furono e sono tuttora la scrittura e la stampa, di grande aiuto a tutti noi. Il suo impiego, negli ambiti più disparati, potrebbe migliorare non poco le nostre esistenze e, non essendo una tecnologia particolarmente costosa, chiunque potrebbe essere un suo fruitore.

È vero che crescono, comprensibilmente, le preoccupazioni per il rischio di un sensibile ridimensionamento dei posti lavoro, sebbene occorra precisare che si ridurrebbero soprattutto lavori routinari, poco gratificanti e spesso mal retribuiti. Per fare qualche esempio: commessi di supermercato, cassieri e contabili di banca, casellanti, impiegati di studi notarili e di ingegneria, impiegati pubblici addetti a compiti ripetitivi. Per chi li svolge, liberarsi da questi lavori potrebbe essere una conquista, invece nelle nostre società diventa una maledizione: quella dello spettro della disoccupazione. Dunque, non sarebbe giunta l’ora che policy maker, imprenditori e sindacalisti provassero a ripensare tempi e modi delle forme organizzative del lavoro, evitando di subire un evento così prevedibile?

C’è poi il pericolo della sicurezza. È noto che la sorveglianza nei confronti dei cittadini o di alcune categorie sociali è in paesi, come la Cina, dichiarata apertamente dai governi o dalle centrali di intelligence, mentre in altri Paesi, nonostante una modalità di impiego meno esplicita, non è escluso che possa già essere in parte tacitamente praticata. Anche se l’aspetto più inquietante è che l’Intelligenza artificiale possa essere utilizzata dai quei pochi super ricchi per i loro scopi non solo commerciali. Una preoccupazione che dovrebbe spingere i Paesi che ancora hanno uno stato di diritto ad attuare regolamentazioni a difesa delle identità dei propri cittadini.

Dunque, ancora una volta, non è la tecnologia che deve spaventarci, ma un suo eventuale uso di parte o, come purtroppo sembrerebbe profilarsi, di una piccola parte.

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L’Italia? Per i giovani solo una meta di vacanza ma così il Paese non ha futuro

Mezzo milione di giovani italiani tra 18 e 34 anni, dal 2011 al 2023, sono emigrati all’estero. Questo dato ufficiale sembrerebbe perfino sottostimare di tre volte il reale flusso migratorio, come ci informa uno studio del Cnel.

Molti dei giovani che lasciano il nostro Paese sono diplomati, laureati e, in tanti, hanno anche conseguito un dottorato di ricerca. Una prima considerazione da fare è che le fasce giovanili italiane, che per effetto della radicale trasformazione demografica sono già particolarmente esigue, con l’emigrazione si assottigliano ancor di più. Un Paese carente di giovani ha prospettive incerte per il futuro, è meno vivace intellettualmente e favorisce lo status quo. Una seconda considerazione riguarda il valore, non solo economico (stimato comunque in circa 400 miliardi di euro), che il nostro Paese ha perso con la fuoriuscita di così tanta mente d’opera. Giovani che si sono formati nelle scuole e nelle università italiane, con l’aiuto e l’assistenza delle famiglie di origine, che, espatriando, contribuiscono alla produzione industriale, alla ricerca scientifica e allo sviluppo socio-economico di altri Paesi. Non si fraintenda: nessuna sollecitazione nazionalistica, ma la constatazione che dopo aver formato giovani competenti, il nostro Paese, per proprie responsabilità, non riesce a trattenerli.

L’Italia, tra gli Stati europei, è quello con minore capacità di creare occupazione, il cui tasso è del 66 per cento mentre quello medio dell’Europa è del 75. Non solo, l’occupazione spesso si presenta instabile e a termine, anche per coloro che hanno titoli di studio elevati.

Gli occupati in professioni intellettuali e nei servizi alle imprese (pubblicità, marketing, comunicazione, consulenza tecnica e manageriale, ricerca e sviluppo, gestione delle risorse umane) crescono molto meno della media europea. L’assetto produttivo italiano e, per alcuni ambiti, anche la Pubblica amministrazione hanno uno sviluppo modesto nei settori ad alta innovazione scientifica, tecnologica e culturale. In breve: il processo di terziarizzazione è nettamente a favore di settori arretrati che consumano invece di produrre risorse. Un esempio, tra altri: in Italia si conta un occupato nei servizi alle famiglie (badanti, colf e così via) per ogni 84 abitanti contro un rapporto medio europeo di uno su 159. Mentre i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, cioè quelli che trattano informazioni, identificati da Cnel e Istat come lavoratori laureati occupati in professioni intellettuali e tecniche, sono inferiori almeno di cinque punti percentuali rispetto alla media europea. Si assiste, dunque, a una crescita molto contenuta di lavori qualificati e al conseguente spreco di risorse umane giovani, scolarizzate e qualificate.

Il nostro Paese presenta una domanda di lavoro più orientata verso le basse qualifiche e meno verso quelle alte, diversamente da quanto accade nel resto dell’Europa centro-settentrionale. Perciò, i giovani italiani istruiti, benché relativamente pochi (l’Italia è al penultimo posto in Europa per numero di laureati), risultano troppi, dovendo confrontarsi con scarse occasioni di lavoro qualificate. E va anche peggio per i giovani laureati meridionali che restano disoccupati, mediamente, oltre i 30 anni. È il fenomeno della over-education (sovra istruzione), ossia un disallineamento tra le conoscenze acquisite durante il percorso formativo e le competenze richieste dal mercato del lavoro. È noto ai più che l’Italia ha una struttura produttiva fondata sulle micro-imprese (con meno di 10 addetti) che rappresentano circa il 95 per cento del totale e che occupano quasi il 50 per cento dei lavoratori. Aziende che, proprio per le loro dimensioni, non hanno capacità di investire in ricerca e sviluppo né in formazione e crescita del personale, oltre a non disporre di funzioni organizzative in grado di assorbire lavoratori con elevate competenze professionali. Si consideri che il 73 per cento dei giovani che lascia l’Italia svolge, nei Paesi di arrivo un lavoro intellettuale o tecnico. Se al quadro qui abbozzato si aggiunge la percezione che hanno i giovani delle condizioni offerte dai Paesi di destinazione, quali migliori opportunità lavorative, di studio e formazione e una più elevata qualità della vita, è del tutto conseguente la scelta di abbandonare, spesso definitivamente, l’Italia.

Dalle risposte che i giovani expat riferiscono sul nostro Paese, raccolte nell’indagine già citata del Cnel, emerge una netta insoddisfazione verso le politiche pubbliche del lavoro, la cultura imprenditoriale, la valorizzazione delle competenze, il riconoscimento del contributo dei lavoratori, le retribuzioni. Per i giovani compiere esperienze di studio, di formazione e lavoro all’estero è affatto positivo e vanno incoraggiate. La possibilità di confrontarsi con altre culture, differenti stili di vita e modi diversi di intendere lavoro e professioni, non può che valorizzare le conoscenze e le abilità acquisite durante i percorsi di studio e lavorativi già svolti in Italia. E qui il punto in questione: affinché i giovani migranti italiani possano rientrare, dopo un percorso all’estero, occorrerebbe che il loro Paese risultasse attrattivo. Non sono sufficienti gli annunci di iniziative estemporanee per favorire il rientro dei cervelli in fuga. Sono necessarie, come gli stessi expat suggeriscono, politiche del lavoro pubbliche stabili e coerenti in grado di valorizzare i talenti dei giovani, così da incentivare un cambio di verso delle scelte imprenditoriali. Non è semplice, ma è una delle poche chances disponibili per un Paese che non voglia considerarsi solo come luogo di vacanza nel quale rientrare saltuariamente.

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Riprogettare il lavoro recuperando la dimensione conviviale preindustriale

Quella sera alla Lega socialista, dopo una vivace discussione tra i pochi presenti sul futuro della società, uno dei partecipanti alla riunione, salutò e prese la via di casa “seduto in quel bagno turco di umanità frettolosa e scontenta che è un vagone della metropolitana”. Uscito dalla stazione, dopo pochi passi, giunse in uno squallido e male illuminato sobborgo di Londra. Guardò in alto: c’era una luna a tratti coperta da un vecchio olmo, tuttavia lo sguardo, nonostante non avesse voluto, cadde su quell’orribile ponte che sovrastava il quartiere. Giunse a casa, si mise a letto e si addormentò in pochi minuti.

Sognò di svegliarsi e di ritrovarsi a vivere situazioni davvero sorprendenti. Era in una Londra completamente diversa: tranquilla e felice, curata e abbellita. Gli abitanti fondavano i loro rapporti sulla reciproca collaborazione: ciascuno contribuiva al benessere della comunità secondo le proprie capacità. Ebbe modo di constatare che in quella società erano assenti sfruttamento e oppressione; al degrado dell’industrializzazione si era sostituito il decoro di forme architettoniche semplici e gradevoli; tutte le attività erano svolte con piacere e motivazione.

Era il 1891 quando un inglese di grande talento, William Morris, scrisse un delizioso romanzo utopico, Notizie da nessun luogo, di cui, sommariamente, ho dato qualche cenno.

La rivoluzione industriale fu portatrice di eventi sconvolgenti: il processo continuo di urbanizzazione sradicò milioni di contadini che si stabilirono nelle nascenti, brutte e fuligginose, città industriali. Si formò un proletariato povero e senza radici; si concentrarono schiere numerose di operai in uno stesso opificio. Chi entrava nella fabbrica doveva interrompere qualsiasi rapporto col mondo esterno. Il lavoro era compiuto sotto sorveglianza e secondo una ferrea disciplina. Si andava realizzando il sistema industriale: milioni di uomini e donne modificarono i propri ritmi produttivi, i rapporti affettivi e di lavoro, quelli con il quartiere e con la propria dimensione domestica. Le macchine e le nuove tecnologie portarono incrementi di produttività impensabili poco prima, a ritmo sempre più rapido crebbe la produzione di beni materiali.

È in queste circostanze che si originò uno dei primi paradossi dell’economia capitalistica: la miseria, non solo economica, che si accompagnava all’abbondanza. La società industriale, nonostante l’eccesso di merci, distribuendo iniquamente la ricchezza prodotta, non permetteva a tutti di comprarle: non erano soddisfatti i bisogni in quanto tali bensì solo quelli dotati di potere di acquisto. Lo sviluppo del processo produttivo provocò una netta divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale: i due diversi momenti della ideazione e della realizzazione di un prodotto furono drasticamente separati tra loro. All’interno della fabbrica e, poi anche, degli uffici le diverse mansioni, considerate singolarmente, erano prive di senso compiuto. L’operaio, rotella di un ingranaggio meccanico, destinato a compiti parcellizzati, perse completamente di vista il progetto d’insieme: il valore d’uso del suo prodotto non lo riguardava. Nel 1956 negli Stati Uniti per la prima volta in un paese del mondo gli addetti ai servizi superano quelli dell’industria e dell’agricoltura messi assieme. È l’esordio di una profonda trasformazione sociale, ed è indubbio che il contesto in cui oggi viviamo tende a differenziarsi in modo radicale dalla società industriale. Non è solo una questione quantitativa, la produzione e la diffusione di servizi immateriali conquistano il centro del sistema fin qui occupato dalla fabbricazione in serie di beni materiali.
Si assiste al passaggio da un’economia di produzione a un’economia di servizi. Cresce l’importanza dei lavoratori della conoscenza: diventano centrali il sapere, le doti cognitive e le capacità relazionali. La scienza e la tecnologia raggiungono traguardi finora impensabili, dalla biologia genetica alla chirurgia digitale, dal telelavoro alle comunità virtuali. Lo sviluppo economico è accompagnato dalla riduzione del lavoro necessario a produrlo: nel 1979 un lavoratore della Fiat costruiva 9 vetture nello stesso tempo in cui oggi ne costruisce molte decine.

Benché l’attuale sistema economico-sociale, per alcuni aspetti, appaia uguale al passato è invece profondamente mutato. Si avverano eventi che ci sconvolgono e ci rendono insicuri: è l’ansietà di un eccesso di complessità che provoca disorientamento. Eppure una delle maggiori paure del nostro tempo, la disoccupazione, potrebbe risolversi in una formidabile opportunità, nonostante che i responsabili delle organizzazioni produttive, invece di sfruttare le innovazioni tecnologiche per produrre i medesimi beni in meno tempo, preferiscano produrre più beni nel medesimo tempo. La società post-industriale possiede i supporti tecnologici e organizzativi per realizzare una gestione del tempo capace di conciliare l’alta produttività con i ritmi di lavoro personali, le esigenze della produzione con la piena occupazione, il lavoro creativo con i bisogni individuali e collettivi. In questo processo di dissoluzione e ricostruzione il punto cruciale è la relazione: quando si eroga un servizio sia l’erogatore che il fruitore sono legati da un rapporto comunicativo e la comunicazione è un agire umano che dà senso e identità. Se l’operaio alla catena di montaggio era privato di qualsiasi dimensione intellettuale, il lavoratore ideativo può nutrirsi di sensazioni e saperi, tra i quali leggere, ascoltare, viaggiare.

In definitiva occorrerebbe riprogettare il lavoro in modo da conservare i vantaggi della produttività industriale, recuperando la dimensione conviviale preindustriale. L’utopia sognata dal protagonista del romanzo di William Morris potrebbe, almeno in parte, diventare una possibilità.

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Disincantati e più competitivi, ecco come siamo diventati in questo quarto di secolo

L’anno 2025 chiuderà il primo quarto del nuovo secolo. Un avvento che, inaugurando il millennio Duemila, abbiamo probabilmente sovraccaricato di aspettative mirabolanti. La società italiana in questi venticinque anni ha sì partecipato al radicale passaggio d’epoca dei Paesi europei e occidentali, ma con alcune evidenti difficoltà che hanno lacerato quelle componenti del tessuto sociale che, nella seconda metà del secolo scorso, erano state le sue principali risorse: famiglia, reti territoriali e comunitarie. Di più, si è logorata anche quella capacità adattiva, fatta di flessibilità e talvolta creatività e innovazione, che per decenni ha reso il nostro Paese famoso nel mondo.

Ce lo dicono indagini e sondaggi, quasi quotidianamente: siamo risentiti, frustrati, ci sentiamo impotenti, nonostante la frenesia ansiosa che anima le nostre giornate. Viviamo immersi in un tono emotivo, non nuovo nella nostra storia nazionale, che fonde una richiesta sacrosanta di giustizia sociale con una voglia di vendetta che spesso si trasforma in accusa sommaria a supposti colpevoli di turno: immigrati, giovani fannulloni, istituzioni pubbliche o sovranazionali, e così via. Un importante mutamento sociale di questi decenni riguarda gli assetti demografici.

L’Italia è tra i Paesi occidentali col maggior numero di anziani. Vuol dire che si vive più a lungo e spesso in condizioni accettabili. Magari, sarebbe stato auspicabile che, negli anni, i policy maker avessero intrapreso politiche sociali in grado di sostenere, e anche valorizzare, le esperienze cumulate dagli italiani con più di 65 anni.

Dalla parte opposta della piramide demografica, i giovani, che decrescono e perdono centralità come soggetti sociali. La percentuale dei diplomati e laureati in Italia è ancora inferiore alla media europea. E si verifica un apparente paradosso: i giovani istruiti hanno un minor vantaggio rispetto ai non istruiti. Quelli istruiti invece hanno maggiori vantaggi nei paesi europei in cui è più elevata la loro presenza. Sembrerebbe non funzionare la legge di mercato per cui, se un bene, l’istruzione, è scarso ne trae maggiore vantaggio chi lo possiede. Il paradosso svanisce quando si confronta la composizione dell’occupazione per livelli professionali. L’Italia presenta una domanda di lavoro più orientata verso le basse qualifiche e meno verso quelle alte, diversamente da quanto accade nel resto d’Europa.

Oltre al blocco dell’ascensore sociale, meccanismo ormai desueto dell’emancipazione dei giovani meno abbienti, nel nostro paese sono persistenti forme di cooptazione nelle professioni, nelle attività intellettuali, nel sistema pubblico, fondate perlopiù su relazioni familiari e di potere. Ma quel che preoccupa maggiormente è la condizione di disorientamento dei giovani italiani che, come ci informa l’ultimo rapporto Censis, per il 60 per cento si sente fragile e solo. Mentre più del 50 per cento dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressivi. Spesso loro malgrado, i giovani sono bersaglio di genitori poco maturi e iperprotettivi, mentre ritardano sempre più la conquista di forme di autonomia: dalla conclusione degli studi all’accesso al lavoro, alla separazione dalla famiglia d’origine.

L’Italia ha circa 24 milioni di occupati su una popolazione di 59 milioni di abitanti, un rapporto che la vede distante di ben 8 punti percentuali dalla media europea, sebbene negli ultimi anni si sia verificato un discreto incremento di posti di lavoro. Che però, altra contraddizione, non ha portato a un aumento della ricchezza nazionale, che invece ristagna. La dinamica disgiunta tra maggiore occupazione, da un lato e minore reddito disponibile degli italiani, dall’altro conferma le caratteristiche di precarietà e bassi salari della nuova occupazione. Non a caso, la produzione delle attività manufatturiere è in sensibile caduta mentre il settore turistico cresce costantemente. Ma come dimostrano altri paesi e la stessa esperienza industriale italiana non è possibile, col solo turismo, avere una struttura occupazionale stabile, non stagionale, e con salari adeguati.

Dunque, al progressivo contrarsi delle aspettative di una maggiore crescita economica e sociale, gli italiani in questo scorcio di secolo appaiono disincantati, mostrando punte preoccupanti di risentimento sociale. Un humus velenoso che predispone a forme esasperate di competizioni identitarie: individuali, religiose, etnico-culturali, di orientamento sessuale. Messo in soffitta l’antagonismo di classe, il conflitto ora si disputa sulle minime differenze valoriali e di comportamento. Non è un caso se in questi anni è cresciuto l’astensionismo politico, toccando livelli inimmaginabili solo alla fine del Novecento, fino a superare il 50 per cento degli aventi diritto al voto. Mentre cresce e si consolida la sfiducia nei sistemi democratici: circa il 70 per cento degli italiani ritiene che le democrazie liberali occidentali ormai non funzionino più (Censis, 2024).

Questi tratti della società italiana delineano indubbiamente un quadro a tinte fosche. I prossimi anni saranno decisivi per il nostro Paese. La posta in gioco è alta: dall’attuale galleggiamento, che ancora ci mantiene in una zona di relativo benessere, potremmo finire intrappolati nel possibile acuirsi di questioni sociali vecchie e nuove (nulla s’è detto del dualismo Nord-Sud, dello Stato sociale che sempre più si ritrae per far posto a forme private di cura, assistenza e previdenza, delle immigrazioni, degli incerti equilibri istituzionali).

Oppure, col filo della pazienza, occorrerà che società civile, movimenti politici, associazioni possano riannodare le energie, le risorse, le intelligenze, di cui il nostro Paese ancora dispone per dipanare almeno parte di quei nodi sociali e istituzionali provando così a ridare ai cittadini, e ai giovani in particolare, un futuro ancora degno di essere vissuto.

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La parola resta l’unico antidoto alle minacce del potere attuale

Alcune vicende drammatiche, come le due principali guerre in corso, preoccupanti, come il conflitto tra Governo e magistratura nel nostro Paese o il conferimento di un rilevante incarico pubblico del presidente degli Stati Uniti all’uomo più ricco del mondo, sollecitano una riflessione su cosa sia il potere e quali forme assuma nella contemporaneità.

Noi umani siamo immersi, da sempre, in relazioni di potere. C’è chi lo esercita e chi lo subisce. L’esercizio del potere è esclusivamente relazionale e i rapporti di potere mostrano due connotati: il primo è un antagonismo ambivalente.

Le relazioni sociali, a partire da quelle tra due partner, mostrano allo stesso tempo interessi contrapposti ma anche comuni. Il secondo: le relazioni sono asimmetriche. Ossia, c’è la possibilità che una parte – individuo, gruppo, Stato – riesca a far valere la propria volontà, anche di fronte a un’eventuale opposizione. Per influenzare il comportamento dell’altra parte, l’asimmetria si manifesta, in primo luogo, attraverso una modalità comunicativa: la minaccia.

Se qualcuno mi chiedesse di consegnargli il portafoglio, sarei certamente più obbediente se mi dicesse di avere una pistola in tasca puntata contro di me. Una minaccia se è credibile può accrescere l’influenza del detentore di potere, che tuttavia spera di non trasformarla in azione. In altre parole, per detenere e accrescere il potere, si paventa la possibilità di una sanzione ma non la sua concreta attuazione. Un caso concreto è quello del controllo sociale che ha il fine di mantenere, attraverso apparati istituzionalizzati, l’ordine costituito.

Epperò chi subisce il potere può anche fare in modo, attraverso azioni conflittuali, che la minaccia paventata si realizzi cosicché, se l’azione non fosse pari alla sua promessa, il potere ne sarebbe screditato. Perciò, qualsiasi detentore di potere non desidera solo l’obbedienza ma richiede la fedeltà: chi subisce il potere dovrebbe riconoscersi in quel potere. È una dinamica che non riguarda solo le relazioni tra Stati sovrani e cittadini ma anche quelle tra organizzazioni criminali e propri associati, tra religioni organizzate e propri credenti, e così via.

Il potere, prima ancora di manifestarsi con la forza, mette in campo quello che il sociologo Pierre Bourdieu ha definito “capitale simbolico”, costituito da autorevolezza, apprezzamento, prestigio, onore, rispetto. Per gli Stati e le istituzioni moderni è la legittimità all’esercizio del potere e al monopolio della violenza. Tuttavia, il capitale simbolico può essere usato contro chi ne è parzialmente provvisto o del tutto sprovvisto, configurando così una violenza simbolica che può essere esercitata con l’imposizione o la manipolazione.

Il potere ha dunque a che fare con l’uso di simboli, cioè con il linguaggio. Anzi, di più: il linguaggio è la posta in gioco del potere. Da decenni, non solo in Italia, le principali forme di potere sovrano – Parlamento, Governo, magistrature, istituzioni sovranazionali – soffrono una profonda crisi di autorità, vale a dire di legittimità. Il pensiero neoliberale, nel Novecento, ha nutrito un’utopia: tenere separate le due principali sfere delle attività umane, il potere politico, da un lato, e l’economia, dall’altro. Il mercato avrebbe dovuto assicurare la parità tra i soggetti, riducendo al minimo qualsiasi interferenza del politico nelle dinamiche economiche.

La dimensione degli interessi privati sarebbe così risultata libera da influenze esterne al mercato. In realtà, come ci dimostrano gli ultimi 50 anni, le due sfere sono indivisibili e a volte indistinguibili. Non solo, il potere non appare più nei luoghi deputati: Parlamento, Governo, magistrature. La sovranità, il potere legittimo, appare oggi quasi del tutto invisibile. È il caso emblematico della finanziarizzazione dell’economia, detonatore della smisurata crescita di diseguaglianze economiche, sociali e culturali. Potremmo dire dov’è e chi detiene il potere della finanza? Assistiamo a un doppio deficit di legittimità: da un lato, si è incrinata la fiducia, fondamento del rapporto col potere costituito e principale collante per rafforzare l’autorità e tenere unite le società. Ne sono spie evidenti la disaffezione per la politica e il fenomeno crescente dell’astensionismo elettorale. Dall’altro lato, il cittadino comune ha la sensazione di non poter fare nulla: sente di vivere in una rete di eventi su cui non ha alcun controllo. Da qui, probabilmente, la diffusione pervasiva di teorie complottistiche. Inoltre, questo primo quarto di nuovo secolo mostra un inedito ritorno a comportamenti predatori dei poteri che, forse un po’ ingenuamente, credevamo superati, considerando arcaiche alcune forme con cui si esibivano, e purtroppo ancora si esibiscono, forza e privilegi.

Facile predire che assisteremo a lotte e conflitti sempre più aspri. Resta, al fondo, una domanda: se il potere non è solo forza e acquisizione di consenso, ma anche produzione di senso comune attraverso simboli e linguaggio, come potrebbero i soggetti, singoli e collettivi, riappropriarsi del loro ruolo di agenti sociali e politici? Non è del tutto semplice rispondere: il transito sembra lungo e accidentato, un approdo ancora lontano. Forse un esordio potrebbe essere la capacità di capovolgere la posta in gioco: dal linguaggio del potere al potere del linguaggio.

Cittadini, gruppi, associazioni, movimenti sociali potrebbero riappropriarsi della parola e partecipare di nuovo attivamente alla vita pubblica, ritornando nelle agorà cittadine lasciate desolatamente vuote per troppo tempo.

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Il sogno resta uno dei racconti per comprendere ancora i desideri

Circa un terzo della nostra esistenza lo trascorriamo dormendo. Di tutto questo tempo ricordiamo a malapena qualche sogno che, col trascorrere dei giorni, si perde inevitabilmente nell’oblio. Noi umani non siamo gli unici a sognare, lo fanno sicuramente altri mammiferi e probabilmente altre specie animali. I nostri sogni, però, hanno un evidente fattore distintivo: sono narrati, a sé stessi o agli altri, a volte registrati trascrivendone i contenuti, talaltra interpretati.

Il sogno è dunque inseparabile dal linguaggio, il quale è condizionato dagli elementi di stile narrativo che caratterizzano quella lingua, in quell’epoca storica, in un determinato contesto sociale. Per quanto possa apparire un’attività psicosomatica del tutto soggettiva, il sogno è invece un’espressione dell’io sociale che dorme. Il sonno di un uomo occidentale in un comodo appartamento metropolitano è ben diverso dal riposo notturno di un abitante di una favela brasiliana. Oppure il sonno di chi vive in una caserma è cosa ben diversa rispetto a quello di chi vive in un convento. E non solo, possiamo ritenere che le condizioni del sonno degli antichi fossero alquanto diverse da quelle dei moderni. Cosicché, fattori storici e biosociali influenzano notevolmente il soggetto che sogna.

Nonostante il sogno rimandi con immediatezza, quanto meno nelle società occidentali, alla psicoanalisi o, forse meglio, alle versioni più ingenue e popolari del noto libro di Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, è ancora persistente la sua funzione oracolare di predizione dell’avvenire.

Ne sono esempi quotidiani la smorfia napoletana, probabile discendente della cabala ebraica, fonte ineguagliabile del gioco del lotto e una tenace credenza predittiva dei sogni, molto ben rappresentata dal capolavoro eduardiano, Non ti pago.

Il sogno per millenni, almeno da quando disponiamo di documenti scritti, è stato il protagonista dell’arte della premonizione: le sue profezie annunciavano l’elevazione o il disastro di re, faraoni, nobili, sudditi e popoli. Dalla Bibbia al Libro dei sogni egizio, dall’Odissea, col monito di Penelope sui sogni veridici o ingannevoli, alle Vite di Plutarco, con i sogni trattati come fatti storici, per gli Antichi le visioni oniriche sono testimonianze indiscusse della storia e la loro raccolta costituisce un consistente archivio storico. In quelle società il sogno era un faro sul divenire: il futuro, ch’era affidato al fato o a qualche divinità, si sarebbe potuto scrutare con la magia dell’interpretazione divinatoria.

I sogni tuttavia possono prendere consistenza anche nel tempo diurno: sono quelli collettivi di panico, pensiamo all’avvento dell’anno Mille e anche a quello più recente del Duemila, o di speranza, tutte le rivoluzioni o i grandi cambiamenti, prima d’essere realizzati, sono stati sognati a occhi aperti: è il fenomeno della rêverie, come lo chiamano i francesi.

Con l’avvento della modernità anche il significato attribuito all’attività onirica muta radicalmente. L’attenzione ora cade sul ricordo del passato e non più sul futuro da presagire. Protagonista principale della svolta è la psicoanalisi che ne ribalta il segno: da comprendere non è più l’ignoto del futuro ma il represso del passato. Non solo è screditata l’arte divinatoria per evidenti ragioni scientifiche maturate nel corso di tre secoli, dal Seicento all’Ottocento, ma nella modernità acquisiscono un valore centrale l’infanzia, per un verso e l’individuo come monade, per l’atro.

Per la psicoanalisi l’infanzia, il nostro passato, è l’età la cui ombra si prolunga per tutta la durata della nostra esistenza, influenzandola notevolmente. Un’esistenza in cui spesso l’individuo è solo con sé stesso, a volte in compagnia delle sue nevrosi. La grandezza di Freud è indiscutibile ma è altrettanto fuor di dubbio che i disagi dell’uomo d’oggi non si annidano, in prevalenza, nei traumi infantili ma nelle forme di vita della nostra contemporaneità: frenetiche, ansiose, rissose, acquisitive.

In fondo lo stesso Freud intravide alcune di queste condizioni, scrivendone in un’opera mirabile dal titolo eloquente, Il disagio della civiltà.

Negli ultimi decenni le neuroscienze ci informano che l’ipotesi più accreditata è che il sogno sia un sottoprodotto della fase onirica: i suoi contenuti non avrebbero alcun valore. Sconfortante, eppure al di là delle sinapsi che collegano i neuroni del cervello, per noialtri è centrale la ricerca del senso, anche del senso che hanno i sogni. E allora, finché la nostra specie continuerà a dormire, i sogni resteranno uno dei racconti per comprendere desideri, paure, ansie, che animano le nostre vite da umani.

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Preparare i giovani a sfidare l’incertezza: ecco la missione di scuola e famiglia

L’incertezza è una caratteristica costitutiva della nostra società. Pervade le istituzioni, il lavoro e l’economia, lo stato sociale, la politica, le religioni, i valori collettivi e personali, le nostre identità. Viviamo con un senso di precarietà ormai endemico che genera insicurezza e incapacità di progettare e attuare piani per il futuro. I giovani e i giovanissimi ne sono particolarmente colpiti. I tradizionali punti di riferimento per elaborare strategie di vita appaiono d’un tratto inservibili.

Si pensi al lavoro con la sua incontrollabile deregolamentazione, ai legami affettivi e alle relazioni sociali sempre più deboli, allo spreco di risorse personali e collettive. Le due principali agenzie educative, la famiglia e la scuola, soffrono una crisi di orientamento che le induce spesso al conflitto piuttosto che alla cooperazione. Agli adulti, genitori e insegnati, non di rado mancano possibilità e capacità di elaborare modelli educativi in grado di preparare alla vita le nuove generazioni.

Incertezza e ambiguità non possono essere affrontate solo con spezzoni di discipline scolastiche variamente assortite e protocollate da dispositivi burocratici e ministeriali. Il rischio è di sfidare la radicale trasformazione del mondo in cui viviamo con la riproduzione di modelli educativi monotoni che alternano perlopiù divieti e obblighi, crediti e debiti formativi. Il sistema scolastico potrebbe ripartire dal riconoscere la bellezza dell’apprendimento trasformativo, dalla cura del proprio sé che non è concepibile senza la cura dei propri discorsi e che non ha un’indole solitaria. Tutt’altro, l’esercizio della cura di sé è iscritto nella socialità della sfera pubblica. Ma cosa vuol dire potenziare le facoltà che permettano un buon uso della propria esistenza?

Qualche esempio: reagire agli eventi imprevisti, accrescendo le capacità di scelta e decisione; formulare ipotesi su come alcuni fatti sarebbero potuti andare diversamente, rafforzando il ragionamento controfattuale; destreggiarsi tra discorsi di genere differente, passando da quello scientifico, letterario o filosofico a quello quotidiano; migliorare le abilità, sviluppando il proprio potenziale. L’educatore, insegnante o genitore, non può limitarsi alla trasmissione dei saperi espliciti ben strutturati nei programmi di studio.

Il suo è oggi un compito ben più complesso, quello di delineare un orizzonte di senso in cui sia possibile tracciare un processo educativo aperto che adotti ipotesi esplicative che possano essere confermate o rivelarsi errate, comunque in grado di esplorare nuove possibilità. Non importa che l’ipotesi sia giusta (se ne possono sempre avanzare altre), quel che conta è ridurre l’ignoto e sorprendersi che si possa fare. È questo il nocciolo di un pensiero critico che riflettendo valuta le alternative. I giovani esibiscono spesso identità frammentate, a volte pericolosamente dissociate, messe in campo per fronteggiare situazioni, in presenza o virtuali, che richiedono l’adattamento a regole sociali differenti e talvolta contrastanti.

È nell’esperienza dell’incontro con l’educatore che potranno costruire un proprio stile cognitivo e comportamentale che contrasti il disagio relazionale ed esistenziale. Disagio che rischia di trasformarsi in dolore inconfessato. Per tenere a bada l’incertezza e il disadattamento scuola e famiglia non possono che potenziare quelle facoltà che permettano alle nuove generazioni un buon uso della propria esistenza. Noi adulti di frequente raccontiamo quel che un giovane è o che dev’essere tralasciando quel che egli può fare di sé, della sua forma di vita. Forse con coraggio (virtù oggi insolita) potremmo in-segnare ai nostri figli e studenti che apprendere dall’errore non è il ritorno a una presunta giusta via, è invece riconoscere che siamo umani perché esploriamo il possibile: né quello che il mondo è, né quello che dev’essere, ma come potrebbe essere altrimenti.

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Riappropriamoci del senso di vergogna come sentinella a difesa della collettività

Perché e di cosa ci vergogniamo? Già Charles Darwin nel 1872 notò con le sue innumerevoli osservazioni, raccolte nel volume in edizione italiana, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, alcuni segnali tipici della vergogna. “I piccoli vasi, che formano tutta una rete sulla parte superficiale del volto, diventano gonfi di sangue quando si prova un sentimento di vergogna… Il rossore non solo è involontario, ma anzi il desiderio di reprimerlo lo fa addirittura aumentare, perché concentra l’attenzione su noi stessi”. Al di là delle acute descrizioni, quel che colpisce in altre pagine del testo citato è l’ipotesi, che sarà confermata pienamente soltanto nella seconda metà del secolo successivo, che solo noi umani possiamo provare vergogna.

Di più: Darwin comprese che la vergogna è un’emozione universale, presente in tutte le culture. Le emozioni, e tanto più la vergogna, non sono serbate in una presunta interiorità del soggetto umano, ma hanno un’origine sociale (con una disposizione biologica) e si manifestano nelle relazioni. Impariamo dai rapporti sociali i nomi delle emozioni, che sono appunto socialmente apprese. Le esibiamo per interagire con i nostri simili in una combinazione di inter-azioni che hanno, spesso, significative conseguenze sociali. Pensiamo, oltre alla vergogna, alla collera, alla paura, alla gelosia, al rancore, all’odio ma anche alla gioia, all’euforia, alla passione amorosa. Gli umani, a differenza degli altri animali, sono carenti di istinti, non posseggono quella guida all’orientamento fondata su risposte reattive, prevalentemente univoche, a stimoli esterni (o talvolta anche interni).

La nostra specie è esposta a una miriade di sollecitazioni mondane e ambientali che potenzialmente potrebbero avere molto, poco o nessun significato per l’esistenza: è questa una delle ragioni della connaturata incertezza umana. L’agire arbitrario, indeterminato, privo di un repertorio stereotipato di comportamenti, ci induce a non discriminare con congenita sicurezza ciò che è dannoso da ciò che non lo è. Cosicché lo stato di disorientamento, tipicamente umano, ci espone al senso di vergogna. Un’emozione radicale, distintiva della nostra natura, come lo sono il linguaggio, il bipedismo, il riso e il pianto che ci accompagna come un’ombra in cui rischiamo di perdere la faccia. Perciò alla presenza degli altri potremmo manifestare anche intensamente un senso di inadeguatezza, subirne lo sguardo, avere timore del loro giudizio.

Il suo contravveleno, al fine di nasconderne gli effetti più eclatanti, come rossore e balbettio, è il pudore che tuttavia ha il limite di essere insidiato dall’imbarazzo, che provoca, a sua volta, uno stato di agitazione. Vergogna e imbarazzo, sia l’una che l’altro hanno declinazioni storiche, culturali, geografiche, di appartenenza a gruppi e classi sociali. Quel che per un borghese dell’occidente può essere causa di vergogna e imbarazzo potrebbe non esserlo per un chamacoco della popolazione india del Paraguay, e viceversa. La vergogna, nonostante il tentativo di arginarla con la costruzione di nicchie culturali come le regole della socialità, i riti sociali, le etichette, i galatei, è sempre in agguato. E del resto chi di noialtri potrebbe affermare di non aver mai provato vergogna o imbarazzo?

Alcuni studiosi hanno provato a dividere le società sia antiche che moderne in società di colpa o di vergogna. Una divisione che presenta molte suggestioni: le società fondate sulla colpa sarebbero fortemente orientate alla disciplina, a norme prescrittive, all’accettazione del comando. Quelle della vergogna invece sarebbero caratterizzate soprattutto da modelli di superiorità della propria immagine come forma di adeguatezza, dal possesso di beni o dalla disponibilità di accedere a servizi esclusivi che costituisco veri e propri status symbol. E’ del tutto evidente che le società nelle quali noi occidentali viviamo sono caratterizzate più dalla vergogna che dalla colpa.

Eppure, per quanto possa apparire paradossale, la vergogna, in alcuni casi, è una sentinella a difesa della collettività. Troppo spesso nella nostra contemporaneità assistiamo a spettacoli indecenti da parte soprattutto di coloro che hanno maggiori responsabilità pubbliche, che godono frequentemente di ingiustificati privilegi, esibiti spudoratamente come trofei. È facile per costoro scrollare le spalle e simulare atti di contrizione dopo averla fatta sporca. Allora, vergogna e imbarazzo, spiacevoli e a volte insopportabili emozioni, potrebbero difenderci evitando che si ignorino le proprie e le altrui responsabilità.

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Ritroviamo il coraggio di indirizzare il passato verso un futuro desiderabile

Noi umani raccontiamo storie: il bisogno o, per dire meglio, il desiderio di narrarle dà senso e significato alle nostre esperienze. Forse è un modo per raccontarci quanto la vita sia sotto il nostro controllo. Storie in cui vestiamo abiti diversi imparando così a recitare i copioni dei tanti personaggi della commedia umana. Anche se, con raffinato autoinganno, affermiamo che in fondo l’Io, che quelle storie racconta, ha un’identità autentica: il proprio Sé.

Narrare le nostre storie offre una sponda ai trambusti esistenziali mettendoci al riparo da spaesamenti e incertezze, maldestrezza e vergogna di cui la specie umana porta stigmi indelebili.

Tuttavia gli imprevisti della vita urtano la linearità dei nostri racconti, faticosamente costruiti, facendoli talvolta vacillare. Siamo esposti all’errore.

Equando sbagliamo è perché possiamo scegliere di farlo: della pietra che cade o del televisore che non si accende non diremmo propriamente che sono in errore.

Oggi, come mai nel passato, sperimentiamo passaggi repentini, e il disorientamento che ne segue, tra i tanti ruoli che proviamo a interpretare. I destini individuali e collettivi si disfano con estrema facilità, cosicché avvertiamo l’urgenza di imparare a destreggiarci nell’uso quotidiano di abilità insospettate fino a qualche decennio fa: ragionamento, decisione, negoziazione di conflitti, gestione di improvvise incontinenze emotive.

Milan Kundera, il famoso scrittore ceco, nel suo capolavoro, L’insostenibile leggerezza dell’essere, sosteneva che l’esistenza umana, la vita di ciascuno di noi, non sia replicabile. È questa impossibilità che conferisce ai nostri itinerari esistenziali quella leggerezza insostenibile, preludio a una paradossale irrilevanza delle nostre scelte. Nel teatro della vita non ci è concessa la possibilità di provare e riprovare, così come accade sulla quinta di un palcoscenico: esperienze, eventi, accadimenti sono unici.

Tuttavia, oltre a raccontare le nostre storie, possiamo immaginare i nostri futuri, averne una visione. Il futuro in larga misura è gravido di quotidianità prevedibili (abitudini, routine) e altresì di aspettative, aspirazioni, desideri, progetti, promesse, impegni, preoccupazioni, paure. Il futuro è un non ancora, ma averne una visione lo rende attivo e operante nel qui e ora del presente. Aspirare a qualcosa, come un certo lavoro, una relazione sentimentale o una trasformazione sociale vuol dire dare un senso al futuro inter-agendo e modificando il presente. È un buon motivo per contenere nei limiti del necessario le abitudini, così da evitare la gabbia del conformismo, sviluppando invece aspettative, desideri, aspirazioni che ci inducono a scorgere opportunità, ad aprirci al possibile: a ciò che potrebbe essere altrimenti.

La fase storica in cui viviamo è attraversata da una crisi del futuro, anche l’espressione un po’ trita “il futuro non è più quello di una volta”, indica la torsione che subiscono le nostre visioni. Per tutta la modernità, abbiamo creduto che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi.

Una credenza che ha alimentato, anche un po’ ingenuamente, la fiducia assoluta nel futuro, il cui orizzonte oggi si è così tanto ravvicinato da sembrare sovrapposto al presente.

Forse questa è la sfida: ritrovare il coraggio di far convergere le esperienze del nostro passato, le storie che raccontiamo, gli errori commessi, verso un futuro che, sebbene appaia poco attraente, possa rivelarsi ancora desiderabile. Difficile, ma non impossibile.

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L’abbandono silenzioso del lavoro in cambio di qualità della vita

Le trasformazioni del lavoro degli ultimi decenni hanno prodotto un notevole impatto sulla vita organizzativa delle aziende influenzandone, non sempre positivamente, le relazioni, il senso di appartenenza e il livello di motivazione. Incertezza e ambiguità appaiono come le caratteristiche costitutive dell’esperienza lavorativa contemporanea. Si osserva una divaricazione, talvolta netta, tra dichiarazioni idilliache a sostegno del potenziamento e dello sviluppo dei lavoratori e comportamenti gestionali intenti a ottenere risultati immediati attraverso forme obsolete di comando, esecuzione e controllo.

In tale cornice, il dopo pandemia ha dato la stura a due fenomeni diversi per esiti ma accomunati da motivazioni simili: le grandi dimissioni (Great Resignation) e l’abbandono silenzioso (Quiet Quitting). Le dimissioni volontarie, una vera e propria fuga dal lavoro, sono state negli anni 2021 e 2022 più di 4 milioni: un paradosso, considerato il mercato del lavoro italiano che presenta tassi di occupazione e di attività tra i più bassi d’Europa.

I dati relativi alle dimissioni volontarie sono facilmente rilevabili e trattabili statisticamente, diversamente dal nuovo fenomeno dell’abbandono silenzioso che, invece, consiste in una ridefinizione “soggettiva” del proprio rapporto di lavoro. Ossia, il quiet quitter ridurrebbe l’impegno dedicato allo svolgimento delle proprie attività lavorative sia in termini quantitativi, nel fare l’indispensabile pur nel rispetto dei compiti assegnati e dell’orario di lavoro, sia manifestando un modesto coinvolgimento.

Assistiamo a una diffusa disaffezione al lavoro e, come riferisce il V° Rapporto Censis, a un “declassamento valoriale del lavoro, non più epicentro delle vite e delle aspirazioni, ma riportato al rango di una delle tante attività di cui si compone il puzzle quotidiano delle vite individuali” .

Il lavoro perderebbe un suo specifico connotato, quello di attribuire status e riconoscimento sociale e professionale, riducendo la rilevanza avuta fino a qualche decennio fa. Nella vita di gran parte dei lavoratori crescerebbe l’importanza di fattori alternativi: più tempo per sé stessi, meno tempo da dedicare al lavoro, più tempo da destinare alla famiglia e alle proprie passioni e conseguente rifiuto dello straordinario e di ogni altra attività che ecceda i compiti definiti contrattualmente. In particolare sono i lavoratori più giovani che sembrano mostrare maggiore attenzione alle proprie esigenze di benessere e a una più elevata qualità della vita, chiedendo alle aziende tempi di lavoro più facilmente conciliabili con la vita privata.

Secondo un’indagine di Gallup Poll la percentuale di lavoratori italiani soddisfatti del proprio lavoro è appena del 4 per cento mentre l’82,3 per cento è insoddisfatta e ritiene di meritare di più. Insomma, una buona parte dei lavoratori italiani mostra un rapporto strumentale nei confronti del proprio lavoro che viene considerato come una modalità per ottenere il denaro necessario per vivere o dedicarsi ad altro.

Non solo, oltre al mutato atteggiamento nei confronti del lavoro, le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro italiano non facilitano un incontro soddisfacente tra domanda e offerta. Purtroppo, la quota delle professioni intellettuali è in Italia tra le più basse d’Europa e non crescono in misura soddisfacente gli occupati nell’istruzione, nella sanità e nei servizi alle imprese: pubblicità, marketing, consulenza tecnica e manageriale, ricerca e sviluppo, gestione delle risorse umane.

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