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Altro che mercato: è lo Stato che ha fatto sviluppare l’Italia del boom e la Cina

Il grande sviluppo dell’economia italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo è stato ottenuto in un contesto istituzionale nel quale la libera iniziativa privata era accompagnata dalla presenza di imprese pubbliche, direttamente controllate dallo Stato.

Questo assetto particolare del capitalismo italiano ha dato luogo a una forma di economia mista, in cui lo Stato aveva sia un ruolo propulsivo e strategico in alcuni settori sia un ruolo di protezione sociale, garantendo i livelli occupazionali per le imprese in crisi e per le aree economiche depresse, in cui l’iniziativa privata era debole, come nel Mezzogiorno. Questa struttura economica consentiva anche esperienze di programmazione economica (Piano Vanoni, Piano La Malfa, Piano Giolitti), orientando la stessa iniziativa privata su definiti obiettivi di sviluppo economico e sociale. Tuttavia, non si può nascondere che il sistema delle imprese pubbliche fu gestito in Italia in modo da favorire clientele politiche e fenomeni di corruzione, ma non si può gettare l’acqua sporca insieme al bambino: nonostante questi fenomeni di degenerazione, il sistema di economia mista aveva garantito sviluppo e stabilità sociale.

Del resto, la storia ha smentito chi identificava l’impresa pubblica con la corruzione, perché la sua distruzione non ha segnato la fine dei fenomeni corruttivi: dalle privatizzazioni è sorto il crony capitalism, il capitalismo clientelare, in cui il successo imprenditoriale non dipende dalla capacità di cogliere le opportunità del libero mercato, ma dalle strette relazioni tra uomini d’affari e funzionari pubblici, a danno della libertà di impresa e della concorrenza.

La grande crisi energetica degli anni Settanta avrebbe avuto molto probabilmente un effetto più devastante se la rete di salvataggio statale non avesse ammortizzato il colpo, garantendo i livelli occupazionali e la produzione. La forte crescita del debito pubblico che fu l’effetto di quei salvataggi in condizioni di congiuntura negativa era certamente un “debito buono”, come direbbe Mario Draghi che, negli anni Novanta del secolo scorso, fu il regista di privatizzazioni di asset importanti in mano pubblica (come l’Iri, Telecom, Eni, Enel, Comit, Credit) e che oggi torna pentito a Canossa per predicare nel deserto.

Basterebbe citare la forte crescita della Repubblica Popolare Cinese, in questo ultimo ventennio, in cui l’iniziativa privata è fortemente controllata e diretta dallo Stato che partecipa attivamente alla vita economica con proprie strutture e in cui gli asset strategici restano in mano pubblica, sotto lo stretto controllo del Partito Comunista, che in fondo nella allocazione delle risorse pubbliche ha lo stesso ruolo che ha ricoperto in Italia la Democrazia Cristiana.

La storia ha dimostrato che solidi e duraturi processi di sviluppo possono essere ottenuti solo se allo Stato è riservato un ruolo strategico e di protezione sociale. Certamente dovevano essere corretti gli eccessi di interventismo ed eliminate le situazioni di inefficienza: lo Stato non può certamente costruire automobili o camicie, ma può controllare le risorse energetiche, le comunicazioni, le produzioni strategiche come l’acciaio, o assumere il ruolo propulsivo per investimenti in ricerca e sviluppo. La privatizzazione di imprese pubbliche ha avuto come effetto immediato proprio il crollo degli investimenti in ricerca e sviluppo: accadde nel settore delle telecomunicazioni, con la vendita della Telecom Italia, e oggi siamo in mano a fornitori stranieri.

Il miracolo della Silicon Valley non è effetto dell’iniziativa privata, ma è il prodotto di ingenti investimenti pubblici, senza il ruolo attivo dello Stato, dalle infrastrutture alle università, i grandi colossi come Apple e Google non sarebbero mai nati. Gran parte delle ricerche di base per l’iPhone (Siri, il Gps, internet, lo schermo tattile) sono state finanziate dagli investimenti pubblici. L’Unione europea troppo infatuata da falsi miti americani del libero mercato, è arretrata progressivamente demonizzando gli aiuti di Stato, ma come in altri casi la storia presenta il conto e ora lo Stato cacciato a calci dalla porta ritorna prepotente dalla finestra con la politica di riarmo, mettendo in discussione tutto la stupida e fanatica ideologia liberista che ci ha portato al declino.

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Tempi duri per il Mezzogiorno: Pnrr e Zes Unica? Utili ma rischiano di non bastare

La Svimez non manca di aggiornarci sullo stato di salute (si fa per dire, salute) della nostra economia dualistica con il rapporto sulle prospettive di crescita delle diverse regioni italiane per il biennio 2025-2026.

Il dato di sintesi è che la difficile situazione congiunturale internazionale, e l’incertezza che ne deriva, consentirà una lieve crescita solo alle regioni che hanno una solida e ampia base produttiva manifatturiera (Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia e Toscana) e, come è noto, l’industria italiana è per due terzi collocata nelle regioni del Nord, occupando il 64% degli addetti nel settore, quota che sale al 68% se si considera il peso sul valore aggiunto e sarà in grado di catturare gli stimoli provenienti dalla domanda interna, anch’essa diversificata su base regionale. Infatti la tenue variazione di domanda favorirà nettamente le regioni del Centro-Nord per due ragioni: la riforma fiscale che, salvaguardando il potere d’acquisto dei redditi medi dei lavoratori occupati, avvantaggerà le regioni oltre la linea del Volturno, mentre abolendo il reddito di cittadinanza ha eliminato il sostegno alle fasce di reddito più deboli, concentrate nelle regioni meridionali; la domanda interna addizionale proveniente dai non residenti attratti dal Giubileo e dai Giochi olimpici invernali si concentrerà prevalentemente in Lazio e in Lombardia e Trentino Aldo-Adige.

Nel nuovo contesto internazionale, il capitalismo industriale italiano accentuerà le sue tendenze di concentrazione territoriale, seguendo la tendenza, ormai consolidata anche dalle politiche economiche, ad abbandonare le catene di produzione globale, alimentando il fenomeno del reshoring (il rientro in patria di attività collocate all’estero). La fase di ristrutturazione industriale in corso favorirà, quindi, i territori che hanno un apparato produttivo composto da aziende medio-grandi, operanti in mercati oligopolistici, che controllano le catene del valore e possono sfruttare i vantaggi delle sinergie tipiche del distretto industriale, stabilendo nuove relazioni di produzione con aziende contigue dal punto di vista geografico. La crisi della globalizzazione, come prevede la Svimez, potrebbe dunque restituire centralità al modello produttivo fondato sul distretto industriale e quindi avvantaggiare i territori del Centro-Nord.

Non è escluso che il processo di reshoring possa provocare una nuova fase di deindustrializzazione delle regioni meridionali, trascinata anche dalla crisi della produzione dell’automotive. Nel Mezzogiorno è ora concentrato l’85% della produzione di veicoli, con quasi mezzo milione di addetti, concentrati negli stabilimenti localizzati nell’area della Val di Sangro, a Melfi, a Pomigliano d’Arco e a Isernia. E le cifre fanno tremare: tra 2019 e 2022 la produzione di autoveicoli è diminuita del 7,9% e nel solo anno 2023-2024 si è ridotta del 15,7%; ancora più drastico nello stesso anno, la riduzione della produzione di altri mezzi di trasporto, crollata del 24,7 %. Basilicata e Campania le regioni più colpite. La crisi della metallurgia ha colpito poi la Puglia con una riduzione della produzione, nel periodo 2023-2024, del 7,7%.

Anche i settori industriali tradizionali sono in crisi, in particolare la produzione di pelletteria ha ceduto in un solo anno il 23,4% del suo fatturato, colpendo in particolare Campania e Puglia. Sarà poi fortemente ridimensionato il volano della domanda estera, di cui hanno beneficiato negli ultimi anni le regioni meridionali più dinamiche, per effetto della politica daziaria promessa dalla nuova amministrazione Trump. L’unico sostegno che serve a tamponare una situazione che si sta evolvendo in senso negativo per il Mezzogiorno è dato dagli investimenti del Pnrr, i cui benefici sono evidenziati dalla crescita degli investimenti pubblici in costruzioni, che nel 2024 è stata pari a +2,3%, mentre nel Centro Nord è giunta ad un più modesto +0,8%. Un andamento positivo che compensa la drastica riduzione degli investimenti privati dovuti all’abrogazione del Superbonus.

Al Mezzogiorno gioverà anche la proroga del credito d’imposta per gli investimenti realizzati entro il 15 novembre 2025 nella Zes unica, che prevede un tetto di spesa complessivo di 2,2 miliardi di euro. Ma si tratta di medicine che attenuano i sintomi, ma non curano la malattia che ha fondamento strutturale.

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Le esportazioni non bastano, il modello di sviluppo è in crisi e i dati sul pil lo confermano

I lettori più attenti alla politica italiana ricorderanno certamente la polemica dell’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, contro i gufi, i menagrami, gli iettatori, che dir si voglia, che minavano col loro nero pessimismo l’“armonia celeste” inaugurata dal suo governo. Nonostante gli anatemi proferiti, i gufi non sono mai stati annientati: ogni governo li ha avuti, anche il governo Meloni non è sfuggito alla “maledizione”, e questa volta i gufi sono appollaiati nelle stesse strutture istituzionali e sono difficilmente eliminabili, anche volendo.

Gli “uccellacci del malaugurio” sono questa volta i tecnici dell’Ufficio italiano di Statistica che nell’ultima nota di febbraio, hanno tracciato un quadro nero delle prospettive dell’economia italiana. Nell’anno già segnato dal record del riscaldamento globale e dalle irrisolvibili crisi geopolitiche, l’Istat segnala che l’economia italiana è in fase di stagnazione con un Pil destagionalizzato a +0,5% su base annua e anche le previsioni per il 2025 stabilizzano il Pil intorno a zero. Insomma i dati registrati collocano il Pil molto al di sotto di +1% scritto nel Piano strutturale di bilancio approvato a ottobre dal governo Meloni. E, se si pensa che gli investimenti pubblici statali previsti dal Pnrr (7,5 miliardi di pagamenti in conto capitale, +29,7% sul 2023) e locali (22,3 miliardi, +19,3%) hanno raggiunto il picco, il quadro è ancora più allarmante, perché senza questo sostegno alla domanda interna, il Pil italiano sarebbe già in area negativa, come sta succedendo alla Germania (-0,2% su base annua).

I dati diffusi dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, un altro ineliminabile nido di gufi, rivelano che nel 2024 i fattori che hanno contribuito alla crescita del Pil sono state le esportazioni nette (+0,6% su base annua) e la domanda interna al netto delle scorte (+ 0,5%), mentre la variazione delle scorte ha pesato in senso negativo (-0,4%) dopo 738 giorni di calo tendenziale della produzione industriale italiana (puntualmente registrata dal Sole 24 Ore). La contrazione degli investimenti industriali nell’ultimo trimestre dell’anno scorso ha riguardato prevalentemente gli impianti e macchinari (-3,9 per cento).

Le previsioni per il 2025 stabiliscono che nessun contributo potrà venire dalle esportazioni nette, che saranno ferme allo zero percentuale, mentre l’unico fattore di stimolo potrà venire dalla domanda interna (+0,7%, con i consumi concentrati, nei primi nove mesi dello scorso anno, prevalentemente sui servizi e sui beni durevoli, mentre la dinamica dei semidurevoli è stata modesta). La grande incertezza sull’assetto degli scambi internazionali pesa fortemente sulle stime. In più si aggiunge la previsione di un’altra fase di aumento dei costi dell’energia che peserà sul tasso di inflazione. Infatti, da agosto 2024, il prezzo del gas naturale sul mercato olandese (Ttf) ha ripreso a salire, accelerando a ottobre e ancor più negli ultimi due mesi dell’anno. Nel quarto trimestre del 2024 le quotazioni sono tornate al di sopra dei 43 euro per megawatt-ora, per aumentare ancora nei primi giorni di gennaio intorno a 47 euro.

Questo quadro ha ovviamente effetti sulla finanza pubblica imponendo un aggiustamento rispetto alla crescita del Pil indicata dal governo a +1,2%. Il debito è attestato ai 3mila miliardi e il rapporto debito/pil dovrebbe superare nel 2025 la quota 136,9% , in aumento rispetto al 135,8% dello scorso anno e nel 2026, registrare un ulteriore incremento al 137,8%.

Anche il più ottimista dei Pangloss non avrebbe più argomenti solidi. È ormai in crisi l’intero modello di sviluppo proiettato verso la domanda estera, occorre invece potenziare le componenti della domanda interna e ristrutturare le filiere produttive all’interno dell’Unione europea. In un modo che si avvia ai compartimenti stagni del protezionismo, non c’è altra soluzione.

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Quanti soldi in opere pubbliche, ma debito e spesa porteranno sviluppo?

A novembre 2024 il debito pubblico italiano ha superato i 3000 miliardi di euro (precisamente si attesta a 3.005.184). In un solo mese è aumentato di 24 miliardi. Una cifra che supera quanto stabilito dal Piano strutturale di bilancio che ha fissato il target del debito pubblico per il 2024 al 135,8% del Pil nominale, che corrisponde a circa 2.973 miliardi di euro. La stima per il 2025 registra un ulteriore rialzo al 141,1% del PIL. Più della metà del debito pubblico italiano, il 55,1%, è detenuto dalla Banca d’Italia (22,1%) e dagli istituti finanziari nazionali (33%), mentre le famiglie e altri enti residenti ne detengono il 14,3%. Il residuo, pari al 30,5% è in mano a non residenti, tra i quali primeggiano fondi di investimento che detengono la percentuale più alta di Btp e Bot (pari al 33% del totale titoli detenuto). La quota di debito detenuta da stranieri è in continuo aumento da marzo 2023, quando ha toccato il valore minimo degli ultimi venti anni (26,1%), mentre il picco è stato raggiunto ad ottobre 2009 (41,3 %).

Se il lettore non è allergico alle cifre, mi seguirà ancora nel disaggregare il dato complessivo per definire la quota del debito nazionale imputabile alle amministrazioni locali. Seguendo sempre i dati di Bankitalia il debito delle amministrazioni locali, sempre a novembre 2024, ammonta a 83,400 miliardi di euro, di cui il 45,3% grava sulle Regioni, il 6,2% sulle province e città metropolitane, il 3,38% sui comuni.

Se consideriamo il dato del debito delle amministrazioni locali per aree geografiche notiamo che il 26,5% è imputabile alle amministrazioni locali del Nord Ovest, il 12,5% a quelle del Nord Est, il 28,4% a quelle del Centro, mentre alle regioni meridionali è attribuito il 32,6%. Considerando il dato per il debito regionale nel 2022, il Lazio ha il primato con 28,3 miliardi di euro (pari al 24,3% del totale). Livelli elevati di indebitamento sono imputabili anche alla Campania con 15,6 miliardi di euro (il 13,4% del totale), seguita dalla Sicilia, Lombardia e Piemonte dove il livello di debito è poco superiore ai 10 miliardi.

Altre regioni, come Valle d’Aosta, il Molise e la Basilicata, hanno livelli di indebitamento più esigui, inferiori a un miliardo di euro. La regione pugliese ha una cifra un poco superiore pari a 1,3 miliardi. Nel periodo 1998-2022 l’incremento del debito regionale più rilevante è stato quello della Campania (+347%), seguita dal Lazio (+270%), dalla Calabria (+241%) e dalla Sicilia (+185%). Mentre regioni come il Friuli-Venezia Giulia (-16%), l’Emilia-Romagna (-19%) e la Sardegna (-39%) hanno attivato nello stesso periodo percorsi di riduzione dell’indebitamento. Occorre precisare che l’indebitamento degli enti locali è collegato alla realizzazione o ristrutturazione di opere pubbliche e infrastrutture e non è destinato al pagamento degli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione o all’erogazione di servizi nei confronti della cittadinanza. Anzi se si osserva il dato dei dipendenti delle amminsitrazioni locali si nota che, tra il 2011 e il 2020, la Campania ha ridotto del 34,6% la sua burocrazia, seguita da Sicilia (-29,8%), dalla Sardegna (-18%), dalla Puglia (-5%) e dalla Calabria (-4,2%). Di contro, il Trentino Alto Adige ha incrementato il suo personale dell’80,9% e il Lazio del 29 % (dati Svimez).

L’elevato indebitamento degli enti locali nel corso degli anni coinvolge quindi direttamente la politica di sviluppo infrastrutturale intrapresa. Il totale degli investimenti pubblici è cresciuto in maniera significativa nel 2023, più nel Mezzogiorno (+16,8%) rispetto al Centro-Nord (+7,2%). Visto in questa prospettiva, l’elevato incremento del debito di alcune regioni meridionali corrisponde ad una espansione della spesa pubblica locale che almeno formalmente risponde ai fini virtuosi di sviluppo.

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Divario col Nord e aziende troppo piccole: Sud, la svolta resta lontana

Il Mezzogiorno è tornato al centro della politica nazionale? Sembrerebbe di sì, considerando le dichiarazioni della premier seguite alla cabina di regia del 23 dicembre scorso, convocata per un primo bilancio dei risultati della Zes unica, istituita dal ministro Raffaele Fitto.

Anzi, addirittura, il presidente del Consiglio si è spinto a definire il Mezzogiorno la locomotiva d’Italia, un Sud orgoglioso «che non chiede assistenzialismo e sussidi ma solo di essere messo nelle condizioni di competere ad armi pari con il resto d’Italia».

Il lettore scettico, non scrolli le spalle, perché le affermazioni della premier sono questa volta sostenute dai dati che lei stessa ha presentato. Dal gennaio 2024 le autorizzazioni rilasciate sono state 415 per circa 2 miliardi e 400 milioni di euro, superando il totale degli investimenti delle otto Zes precedenti, pari a 1,9 miliardi. I tempi di concessione sono stati veloci per una burocrazia notoriamente lenta, poco più di 30 giorni in media, con ricadute occupazionali previste di 8mila unità.

Dai dati dell’Agenzia delle Entrate risulta poi che 6.885 imprese hanno beneficiato del 100% del credito richiesto, per circa 2,5 miliardi di euro. Supera poi i 5 miliardi di euro il valore degli investimenti (in impianti, macchinari, attrezzature e immobili) e altri due miliardi e duecento milioni di euro sono stati stanziati dalla legge di bilancio, a cui vanno aggiunti 50 milioni di euro per la cosiddetta “Zes unica Agricola”. La premier ha poi ribadito che la politica del Governo ha dato già i suoi frutti positivi nel 2023 in termini di crescita del Pil, dell’occupazione e delle esportazioni.

Un quadro davvero positivo quello tracciato dal presidente del Consiglio che conferma la validità del suo modello liberista, fondato sull’uso di due strumenti: il regime semplificato dell’autorizzazione unica e il credito d’imposta per gli investimenti. Mentre l’autonomia differenziata sembra scomparire dalle priorità dell’agenda politica, emerge ora con prepotenza uno sconosciuto e sorprendente Mezzogiorno, ricco di potenzialità. Basta quindi col cronico vittimismo dei meridionalisti, se in giro ne esistono ancora, finalmente il Sud ha imboccato la via virtuosa dello suo futuro sviluppo. E, tuttavia, per dovere di verità, i dati forniti dalla premier non giustificano il suo esagerato ottimismo, perché una politica di natura congiunturale appena avviata non può modificare la struttura dell’economia meridionale, che da tempo percorre su un sentiero di ristagno, il cui segno più evidente è il declino della popolazione residente.

Secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel corso dell’ultimo decennio nel Mezzogiorno la popolazione è diminuita di 730mila unità, nelle regioni centro-settentrionali, invece, la popolazione è aumentata di oltre 2,7 milioni, grazie all’apporto di immigrati che ha compensato il calo demografico. L’incremento di popolazione è il segno più significativo di un sentiero di crescita economica saldo e strutturale. I dati demografici dimostrano in modo inequivocabile che si è ampliato lo squilibrio nella distribuzione territoriale della popolazione: nel 2023 la quota di popolazione del Mezzogiorno sul totale nazionale è scesa al 33,5% (era il 36% nel 2001).

La vera svolta per il Sud potrà essere solo segnalata da un incremento della sua popolazione, perché è il calo demografico che smentisce l’efficacia delle politiche di sviluppo attuate in questo ultimo ventennio, basate sempre sullo strumento del credito di imposta. Non è corretto quindi usare dei dati di congiuntura e di breve periodo per sostenere improbabili svolte di carattere strutturale la cui esistenza può essere valutata solo nel lungo periodo. La struttura produttiva meridionale resta fortemente polverizzata e arretrata.

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel Sud Italia sono presenti 1,7 milioni di imprese. Di queste, circa 320 mila, ovvero il 18,8% del totale, sono società di capitali e sono costituite per la maggior parte da imprese di dimensioni modeste, con un numero di lavoratori che varia da 1 a 9 addetti. Le aziende del Mezzogiorno sono il 18,5% del totale delle imprese presenti sul territorio nazionale e generano solo il 15% del valore aggiunto totale.

Persiste inoltre un importante divario in termini di competitività rispetto alle imprese del Centro-Nord. Il sistema di incentivi previsto tende a mantenere invariata la struttura produttiva meridionale, privilegiando le piccole e medie imprese, mentre occorrerebbe prioritariamente contrastare il nanismo imprenditoriale. Nonostante l’enfasi di propaganda, purtroppo non ci sono molte novità per il Sud.

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Cara Meloni, il Sud non resti una delega chiusa nel cassetto

Sistemato Raffaele Fitto a Bruxelles, l’importante delega per il Mezzogiorno non è stata attribuita al successore, il piacentino Tommaso Foti, ma è stata trattenuta nelle mani del premier. Una scelta che rivela tensioni nel governo, acuite anche dalla recente sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Il patto di governo della grande alleanza di destra comincia a scricchiolare e le crepe cominciano a essere evidenti. Una di queste riguarda proprio la politica per il Mezzogiorno. Il comunicato del governo con cui si annuncia la scelta di Meloni afferma che il Presidente del Consiglio «ha avviato, da subito, una ricognizione all’interno del governo in merito a quanto già realizzato per rafforzare lo sviluppo del Mezzogiorno, ai programmi in atto e alle proposte ancora da implementare, in particolare su incentivi, infrastrutture e investimenti».

La politica per il Mezzogiorno era stata impostata da Fitto con l’istituzione, nel 2023, della Zona economica speciale unica per tutte le regioni meridionali. Ma a un anno di distanza sono emerse diverse criticità che riguardano soprattutto la consistenza dei vantaggi fiscali per le imprese che devono essere calcolati sui reali investimenti e il credito d’imposta è incompatibile con quello per per investimenti in beni nuovi strumentali o con il credito d’imposta transizione 5.0.

Per il momento l’unica certezza, dopo un intervento del governo, riguarda il raddoppio a oltre 3,2 miliardi dell’entità delle risorse disponibili per il credito d’imposta. La politica definita da Raffaele Fitto si colloca in un approccio liberista in cui lo strumento degli incentivi fiscali prevale sull’intervento infrastrutturale, basato sull’iniziativa pubblica. Anche i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono stati rivolti prevalentemente in questa direzione.

Seguendo questo approccio, dei meccanismi di sviluppo possono innescarsi solo nelle aree del Mezzogiorno che godono già di una sufficiente dotazione infrastrutturale, quelle che, riprendendo una nota definizione del politico ed economista italiano Manlio Rossi Doria, possono essere definite come la “polpa” del Mezzogiorno, mentre quelle carenti di infrastrutture, che Rossi Doria avrebbe chiamato l’“osso”, resterebbero escluse, in quanto nessuno investirebbe in zone in cui non esiste neppure una rete ferroviaria moderna e al passo con altre zone del Nord e del Centro.

La Zona economica speciale unica presuppone che le regioni meridionali abbiano condizioni di partenza omogenee, ma la realtà è, a conti fatti, ben diversa. Il Mezzogiorno è ancora una “grande disgregazione sociale”: la nota definizione di Antonio Gramsci dopo un secolo dalla sua apparizione nel dibattito culturale italiano resta ancora valida. Nei 123mila chilometri quadrati su cui si estende la Zona economica speciale unica vi sono realtà molto diverse tra loro per storia e sviluppo e spesso neppure confrontabili. Il dramma è che oggi la classe dirigente, sia di governo che di opposizione, non possiede una visione realistica del Mezzogiorno e non è quindi in grado di elaborare una strategia di sviluppo efficace che riesca a impattare appieno sul territorio.

L’unica realtà meridionale che forse interessa è quella che circonda il proprio collegio elettorale, il resto non conta. La scarsa conoscenza induce a elaborare semplici ricette applicabili a un astratto e ideale Mezzogiorno d’Italia. Si pensa al turismo come volano dello sviluppo, ma non tutte le aree possono accogliere flussi turistici consistenti e scarso è il beneficio che ne può derivare per una grande metropoli come Napoli; si propone l’iniziativa privata, ma non è possibile pensare che sorgano attività imprenditoriali dove non esiste una mentalità e una cultura economica adeguata; si vuole debellare l’economia illegale e criminale, ma ci si affida a meccanismi del libero mercato che rischiano di favorirla; si pensa a investimenti diretti dall’estero, ma non si può basare un processo di sviluppo sui volubili interessi delle grandi multinazionali senza imporre regole di controllo pubblico; si propongono faraoniche opere pubbliche come il ponte sullo Stretto, ma si lascia poi la Sicilia senz’acqua e senza un sistema ferroviario.

La politica di intervento straordinario del dopoguerra fu fondata su una conoscenza approfondita delle condizioni del Mezzogiorno d’Italia, in gran parte definite dagli studiosi meridionalisti riuniti nello Svimez, le cui posizioni teoriche trovarono una realizzazione concreta nelle scelte politiche. Spesso non esisteva alcuna differenza tra il politico e lo studioso del Mezzogiorno. Oggi i pochi meridionalisti sono predicatori inascoltati. Il Mezzogiorno, questo sconosciuto, resterà, molto probabilmente, solo una delega chiusa nel cassetto del premier.

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Invasione africana? In Italia il problema è il capitale umano che manca

L’emigrazione è un tema delicato ed è affrontato spesso in modo emotivo, se non isterico, come nel caso della cosiddetta teoria della sostituzione etnica, secondo la quale una strategia complottista, sostenuta da una non meglio identificata élite, favorirebbe l’immigrazione illegale per sostituire nei paesi occidentali i bianchi con immigrati provenienti da altre aree del mondo.

La recente vittoria di Donald Trump è stata in gran parte motivata dalla paura di imminenti ondate migratorie che, se non fermate con muri e filo spinato, peggiorerebbero il tenore di vita della classe lavoratrice bianca, abbassando i salari. A questa ondata emotiva, sulla quale si è costruita la fortuna elettorale delle formazioni di destra e la sfortuna di quelle di sinistra, non fa eccezione l’Italia, dove il tema dell’emigrazione occupa saldamente la scena politica, divenendo un elemento permanente di propaganda.

Ma chi promette di fermare o controllare un fenomeno come l’emigrazione sarà sempre smentito dai fatti: nessun muro o filo spinato potrà mai fermare la disperazione di chi cerca migliori condizioni di vita. Il continente africano ha raggiunto 1,5 miliardi di abitanti ed entro la metà del secolo la popolazione crescerà di un altro miliardo. Nel 2050 ben un quarto della popolazione mondiale vivrà nel continente africano. Il reddito mediano europeo è oggi ben 13 volte più alto di quello africano, basta questo dato a spiegare l’unica vera motivazione dell’emigrazione.

Un milione di latinos preme ogni anno sulle frontiere degli Stati Uniti, spinti dalla enorme disuguaglianza che caratterizza la distribuzione del reddito nei loro paesi d’origine: secondo l’Onu, in America Latina il 10% della popolazione più ricca concentra nelle proprie mani il 37% del reddito, è la concentrazione di ricchezza più elevata di qualsiasi altra regione del pianeta. I flussi migratori sono sempre motivati da ragioni economiche. La stessa motivazione che spinse i nostri a cercare condizioni migliori di vita. Tra 1876 e 1976 ben 26 milioni di italiani lasciarono l’Italia per altri paesi europei (52%), per l’America del Nord (17%), per l’America Latina (27%) e per l’Australia (4%).

Due sono stati i grandi flussi migratori degli italiani: tra 1876 e 1914, la grande migrazione transoceanica, seguita dalle migrazioni fordiste degli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, queste ultime dovute allo sviluppo dei grandi complessi industriali, soprattutto in Europa, e la necessità di ricorrere alla manodopera a bassa qualificazione. A questo tipo di migrazione appartiene anche l’esodo dalle campagne meridionali verso le città industriali del Nord che cambiò il volto demografico del paese. Da un decennio l’Italia vive una terza ondata migratoria, meno consistente ma non priva di effetti demografici come le precedenti. Tra il 2011 e il 2023, 550 mila giovani italiani tra 18 e i 34 anni sono emigrati all’estero. Tali flussi in uscita si sono manifestati in modo continuo e crescente dal 2008, passando dalle 7 mila a oltre 65 mila unità nel 2020.

L’accelerazione dei flussi in uscita ha riguardato tutte le aree del Paese, soprattutto le regioni centro-settentrionali che hanno perso oltre 413 mila unità rispetto alle 188 mila del Mezzogiorno. Gli under 40 dal 2002 al 2024 sono diminuiti di 2,1 milioni (-12,4%) nel Centro-Nord, e di 3,1 milioni nel Mezzogiorno (-28%). Il dato è ancora più negativo perché si tratta di giovani con elevata istruzione e qualificazione: una perdita netta di capitale umano che impoverirà nel lungo termine il nostro paese. Si stima che il capitale umano perso negli ultimi dieci anni, sia di 134 miliardi di euro (dati Cnel), cifra destinata ad aumentare. La struttura produttiva italiana, polverizzata in piccole e medie imprese, per lo più scarsamente innovative, non è in grado di offrire condizioni economiche adeguate a chi ha investito per lungo tempo nella sua formazione. Inoltre un consistente divario regionale di cronica persistenza, che non è presente in nessun Paese sviluppato, alimenta ulteriormente questa nuova terza ondata migratoria. Il problema più grave in tema di emigrazione non è la presunta imminente invasione africana, ma l’impoverimento continuo della nostra dotazione di capitale umano. Questo dovrebbe essere la nostra principale preoccupazione.

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Un’alternativa alle politiche di Giorgia Meloni esiste, ma la Cisl la ignora

Allo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil per il 29 novembre, la Cisl non aderirà: una scelta che si rinnova per il terzo anno consecutivo. Una linea che colloca il sindacato di ispirazione cattolica in una posizione di sostanziale collaborazione con il governo Meloni che, secondo i dirigenti Cisl, ha accolto diverse rivendicazioni dell’organizzazione: in primo luogo il taglio del cuneo fiscale e contributivo, che è stato reso strutturale ed esteso fino ai 40mila euro di reddito; la fusione delle prime due aliquote Irpef, che la Cisl considera una misura concreta di tutela di retribuzioni più basse; la defiscalizzazione al 5% sui salari di produttività; i vari provvedimenti a sostegno delle famiglie, la rivalutazione delle pensioni in relazione all’inflazione, il rifinanziamento dell’Ape sociale, la proroga di quota 103 e opzione donna. Poche le criticità evidenziate dalla Cisl che si concentrano essenzialmente sul taglio strutturale agli organici della scuola e sulla difesa delle pensioni minime.

Assumendo questa sua posizione pragmatica, la Cisl rivendica la sua autonomia e la netta distinzione rispetto alle dinamiche della politica, richiamandosi addirittura alla sua radice fondativa e ribadendo le ragioni che portarono nel 1950 alla rottura dell’unità sindacale, stabilita nei Patti di Roma del 1944, allo scopo di sottrarre parte dei lavoratori alla egemonia politica social-comunista. Ma può una organizzazione sindacale essere politicamente neutrale? Il pragmatismo di per sé è una scelta politica, in quanto segna la rinuncia ad una visione programmatica di lungo periodo appiattendosi sulla stretta prospettiva delle misure contingenti. Il pragmatismo segna la sostanziale adesione alla politica di quello che la Cisl chiama governo legittimo e rivela l’impotenza a proporre una visione alternativa.

Il pragmatismo è la conseguenza di una crisi di progettualità. Le attuali rivendicazioni di autonomia dalla politica, in particolare da quella dell’opposizione, avanzate dalla Cisl sono molto diverse rispetto a quelle formulate settanta anni fa. All’inizio degli anni Cinquanta vi era uno scontro ideologico e il mondo cattolico compiva una scelta di campo militante contro l’egemonia marxista sul movimento sindacale, rivendicando un proprio spazio. Oggi non esiste alcuna motivazione ideologica, ma le scelte sono politiche e riguardano la visione del futuro di questo paese.

La scelta della Cisl (che rappresenta circa 4 milioni di iscritti, rispetto ai 5 della Cgil e ai 2 della Uil) rivela che una parte del sindacato, più legata al mondo cattolico, condivide il programma economico del centrodestra, oltre a sostenere gli stessi valori tradizionalisti e conservatori sul piano culturale. Aderendo alle posizioni governative, la Cisl nega nei fatti quell’autonomia che con forza ha rivendicato sul piano del metodo della sua azione. Ogni scelta di politica economica ha la sua alternativa, lo sciopero indetto da Cgil e Uil ha lo scopo di rivendicare l’esistenza di scelte alternative a quelle adottate dal Documento programmatico di bilancio 2025, evidenziando che l’obiettivo del risanamento finanziario di questo paese non può sempre pesare sulle classi lavoratrici e sugli ultimi.

Di fronte alla struttura del capitalismo contemporaneo, non più in grado di assicurare mobilità sociale e ridurre le disuguaglianze, e di fronte ai vincoli imposti dalla moneta unica, l’alternativa all’attuale politica economica può essere solo un’imposta progressiva sul patrimonio, che sposti il peso del risanamento dai redditi da lavoro alle rendite patrimoniali e finanziarie, liberando risorse per investimenti in infrastrutture e formazione, necessari a garantire un meccanismo virtuoso di sviluppo. Si tratta di scelte politiche alternative che la Cisl evidentemente non intende sostenere e che certo non riguardano la difesa della propria autonomia.

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Manovra, poco al Sud e si rischia di sprecare il Pnrr

Cosa riserva il Documento Programmatico di Bilancio 2025 al Mezzogiorno? Ben poco, dati gli stretti vincoli in cui si è mosso il governo. È rifinanziata la Nuova Sabatini, ed è prorogato al 2025 il credito d’imposta per investimenti nella Zona Economica Speciale (Zes) per il Mezzogiorno.

Viene prorogato l’esonero contributivo a favore dei giovani fino a 35 anni di età e delle lavoratrici svantaggiate, e sono estese le misure di esonero contributivo per incentivare lo sviluppo occupazionale sempre nella Zes e delle imprese avviate da giovani. Sono inoltre riproposti la tassazione agevolata al 5 per cento dei premi di produttività e le misure per il welfare aziendale.

Nel complesso, questo pacchetto di misure vale circa 3 miliardi. Infine sono confermate le misure per sostenere le imprese e incentivare la nascita di nuove (il programma Resto al Sud 2.0 per iniziative imprenditoriali promosse da residenti tra i 35 e i 55 anni, finanziato con un miliardo e 250 milioni di euro). Qualche spicciolo poi per gli interventi destinati alla popolazione in stato di povertà assoluta (concentrata prevalentemente nelle regioni meridionali) con 2,3 milioni di euro per l’anno 2025 destinati alla carta “Dedicata a te”. Come il lettore può notare si tratta di strumenti già implementati che vengono prorogati o confermati. Nulla di nuovo, quindi.

Ovviamente restano i fondi del Pnrr e quelli del Fondo di Coesione (per il 2025 circa 7.6 miliardi) che non saranno più utilizzati mediante i Piani Sviluppo e Coesione, predisposti da ciascuna Amministrazione titolare di risorse ed articolati per aree tematiche, ma attraverso il nuovo strumento dell’Accordo per la coesione, che coinvolge il governo e i presidenti di regione. Un ulteriore passo verso un assetto federale dello Stato.

Il Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029, presentato a settembre scorso, ammette che il tasso di occupazione nelle regioni meridionali è attestato ad un livello inferiore di oltre 17 e 21 punti percentuali rispetto ai territori del Centro e del Nord. Una consapevolezza che contrasta fortemente con le misure adottate nel Documento Programmatico di Bilancio che riproducono l’abusato modello degli incentivi, affidando al libero mercato la soluzione del divario territoriale.

Tuttavia senza massicci interventi infrastrutturali sia in termini di capitale umano che di capitale fisso sociale, il divario difficilmente potrà essere ridotto. Il meccanismo di mercato si attiva virtuosamente quando esistono condizioni vantaggiose di competitività che oggi nel Mezzogiorno sono quasi del tutto assenti, mentre è fortissima la concorrenza dei paesi dell’Est Europa. Da decenni, la classe dirigente italiana non ha una visione sul futuro del Mezzogiorno e si affida a politiche contingenti di stampo neoliberista che non hanno una portata strategica. Il Pnrr appare sempre di più come una occasione perduta, perché il modo in cui è stato attuato ha escluso qualsiasi meccanismo di programmazione (e questa è responsabilità del governo Draghi). Occorreva invece predisporre un organo centrale che stabiliva la priorità degli interventi infrastrutturali nel Mezzogiorno attribuendo alle regioni compiti esecutivi. Una scelta di governance che ha compiuto la Francia con la costituzione di un organo ministeriale (Comité de Suivi) coadiuvato nella fase esecutiva dalle prefetture locali.

L’attribuzione agli organi territoriali, dai Comuni alle Regioni, della responsabilità della progettazione e dell’attuazione e del Pnrr, senza una adeguata formazione della burocrazia locale, ha fortemente pesato sulla qualità degli interventi e sulla loro coerenza in una quadro di sviluppo. Vedremo quale sarà il risultato finale. Non si poteva pretendere molto da questa legge di bilancio, dati i vincoli ristretti in cui si colloca e il divario certo non sarà corretto dal nuovo assetto previsto dall’autonomia differenziata. Per il Sud si apre una stagione difficile.

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Il Made in Italy orfano di serie politiche industriali

Che l’economia italiana sia stata colpita da un generale processo di deindustrializzazione è evidente. Tra il 2007 e il 2022 il valore aggiunto reale dell’industria del Nord è diminuito del 14,2% e nel Sud è crollato del 27% (secondo dati dell’Ufficio studi Cgia di Mestre). Le maggiori contrazioni nel periodo 2007-2022, sempre in termini di valore aggiunto, riguardano i settori della raffinazione del petrolio (-38,3%), del legno e della carta (-25,1%) dei prodotti chimici (-23,5%), delle apparecchiature elettriche (-23,2%). Consistente anche la contrazione nel settore del mobile (-15,5%), nel comparto metallurgico (-12,5%), nel tessile (-9,7%), nella produzione di computer (-8,7%) di gomma plastica (-8,7%) e infine nei mezzi di trasporto (-5,1%). Perdiamo terreno nei settori tradizionali su cui si è fondato lo sviluppo della nostra economia, dal tessile al meccanico, ai trasporti, al comparto chimico. Perdiamo terreno nel settore informatico che è quasi sparito.

L’incremento di valore aggiunto registrato in altri settori, nel farmaceutico (più 34,4 per cento), nell’alimentare ( più 18,2 per cento) e nei macchinari (più 4,6 per cento) non serve a compensare il trend negativo degli altri settori, e quindi la contrazione dell’intero settore manifatturiero in termini di valore aggiunto a livello nazionale, nel periodo 2007-2022, si attesta a meno 8 per cento.
Ovviamente non si tratta di sole cifre, dietro i numeri in negativo ci sono lavoratori espulsi dal sistema produttivo industriale: nel periodo 2008-2023 il settore ha perso 547mila occupati, pari a un calo dell’11,1 per cento (secondo dati Confindustria).

Le difficoltà del settore automobilistico potrebbero ulteriormente peggiorare il quadro generale dell’occupazione.

La transizione verso l’auto elettrica avrà notevoli conseguenze sull’occupazione non solo riguardo alla produzione di componenti tradizionali, ma anche per l’assemblaggio.

La strategia dell’unico produttore di automobile presente sul territorio nazionale, Stellantis (ex Fiat), di concentrare in Italia il segmento dell’alta gamma comporterà un ulteriore ridimensionamento della produzione in relazione alla domanda più contenuta.

Dall’inizio degli anni 2000, il gruppo industriale ex Fiat ha chiuso in Italia diversi stabilimenti (Termini Imerese, Valle Ufita, Modena, Pregnana Milanese e San Mauro Torinese e più di recentemente lo stabilimento Maserati di Grugliasco), spostando i suoi più importanti stabilimenti di assemblaggio in Polonia (Tichy e Bielsko-Biala e nella Zona Economica Speciale di Gliwice).

I paesi dell’Est offrono molti vantaggi competitivi: hanno, oltre al ridotto costo del lavoro, minori vincoli circa l’utilizzo della manodopera in relazione agli orari di lavoro e la manodopera è più giovane e maggiormente qualificata per le professioni tecniche e ingegneristiche (conseguenza del sistema educativo dei regime socialisti, indirizzato alle materie tecniche).

Per questo motivo nei Paesi dell’Europa centro-orientale è oggi concentrato quasi un terzo dell’occupazione manifatturiera della Unione europea a 27 (circa 9 milioni di lavoratori su 30) e la Polonia costituisce ormai il terzo Paese per numero di occupati nel settore industriale.

C’è da considerare un ulteriore elemento che induce al pessimismo sul futuro industriale del nostro Paese e riguarda il ridimensionato del capitale italiano negli assetti proprietari: molti importanti impianti italiani, anche in settori di rilevanza strategica per il Paese, sono diventati filiali di multinazionali estere e sono marginalmente coinvolti, se non in alcuni casi del tutto esclusi, dagli investimenti nei più importanti processi di innovazione.

Un caso esemplare è quello degli stabilimenti Bosch e Magneti Marelli di Bari, che sono stati esclusi dagli investimenti sul motore elettrico e non hanno un piano industriale. La difesa e il rilancio dell’industria italiana possono essere sostenuti solo da una politica industriale.

Ed è un paradosso che il governo di Giorgia Meloni, nonostante abbia istituito un ministero intitolato al Made in Italy, non sia stato ancora in grado né di elaborare linee originali di intervento, né di continuare ciò che i governi precedenti avevano impostato non senza difficoltà.

Eppure gli esempi di politiche industriali di successo da imitare non sono pochi in Europa e nel resto del Mondo, e persino nei paesi più liberisti, come il Regno Unito.

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