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Non ignorate chi muore di lavoro

Da lunedì a ieri, in soli quattro giorni, in Italia ci sono state tre morti per incidenti sul lavoro. Il più giovane, Daniele, aveva appena compiuto 22 anni ed è rimasto ucciso da una scheggia incandescente, prodotta dall’esplosione del macchinario vicino al quale stava lavorando.

Ma si può morire di lavoro nel 2025? Si può morire di lavoro in una nazione civile? Si può morire di lavoro in un Paese la cui costituzione al primo articolo afferma di essere una repubblica fondata sul lavoro? Lo scorso anno, 1.090 sono state le vittime di questa straziante epidemia, che colpisce giovani e anziani, donne e uomini, con un incremento del 4,7% rispetto al 2023.

Ma chi muore di lavoro non è un numero che va a gonfiare una statistica. Si tratta di un padre che non rivedrà i propri figli la sera, di una madre che non abbraccerà più chi l’ ama, di un giovane che non potrà avere un futuro, di una ragazza il cui sorriso svanirà per sempre. Chi muore di lavoro non è un numero, ma una persona. Chi muore di lavoro non è un numero, è uno di noi.

Di noi che sfogliamo distrattamente un giornale e a volte ci indigniamo quando leggiamo che di lavoro si può morire. Di noi che subito dopo lo abbiamo dimenticato, ingoiati nel vortice di una quotidianità fatta di figli da accompagnare, di file alla posta, di carrelli pieni al supermercato e ancora palestra, sabato in pizzeria, domenica al cinema. E poi lavoro. Quello stesso lavoro per cui qualcuno può morire. Ma non ci pensiamo, tanto qualcuno non siamo noi!

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La pace comincia dal “noi”

Le parole sono come pietre: se lanciate non ritornano, ma se colpiscono possono fare male. Possono lasciare segni, che restano nel tempo. E proprio su questo argomento si è soffermato il Papa nella sua lettera inviata qualche giorno fa a un quotidiano, evidenziando l’importanza delle parole della pace.

A ben pensarci la pace non può iniziare se non da un termine estremamente breve, formato da una sola sillaba. Si tratta del pronome noi. Troppo spesso non riusciamo a pronunciarlo, soffocati dalla morsa prepotente del suo opposto, ovvero io.

Ma le parole sono anche semi, che se piantati possono far nascere capacità, che generano comportamenti, che si pongono alla base delle convinzioni, ovvero schemi capaci di dividere ma anche di unire, in grado di accendere fuochi ma anche spegnere incendi. E si può costruire la pace, senza la parola “insieme”? Partiamo da queste di parole, e insegniamole a scuola ai ragazzi, perché da quelle che sapranno pronunciare nascerà il mondo che verrà.

Un mondo che dovrebbe saper ascoltare, un mondo che dovrebbe sapere comprendere, un mondo che dovrebbe saper accogliere, un mondo che dovrebbe saper perdonare, un mondo che dovrebbe saper rispettare, un mondo che dovrebbe saper unire. Un mondo strutturato sulla cura, una parola che viene da lontano e che significa anche interessamento, preoccupazione.

Un mondo strutturato sulla pace, perché di guerre ce ne sono state già troppe. Questo il mondo del futuro? Speriamo che non siano solo parole…

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Per i ragazzi il futuro è un rebus

Finalmente dopo anni di dibattiti e polemiche è stato abolito il test di ammissione per la facoltà di Medicina e Chirurgia. Istituito attraverso un decreto legge nel 1987 per ovviare al problema delle università che non riuscivano a gestire il numero degli iscritti e di un sistema che non era in grado di assicurare un lavoro stabile ai laureati, ha generato una fuga di giovani all’estero, conducendo il nostro sistema sanitario al collasso.

Il Covid ha ulteriormente evidenziato le difficoltà in cui i camici bianchi operano. La nuova riforma, a dire il vero, non è però un “tana libera tutti”.

La meritocrazia diventerà la pietra angolare del nuovo corso. Solo gli studenti più meritevoli potranno proseguire, in quanto dopo il primo semestre ci sarà la selezione e questa volta non sulle cervellotiche domande di logica a cui per rispondere bisognava mettere una crocetta, ma in base al proprio rendimento. Sicuramente si tratta di un notevole salto di qualità rispetto al sistema precedente, che spesso ha penalizzato studenti capaci e determinati, lasciando spazio a una selezione che, in alcuni casi, premiava più chi poteva permettersi corsi di preparazione costosi che non chi aveva una vera vocazione.

Restano comunque dei punti oscuri per quello che sarà il corso di laurea che verrà, in quanto oggi le strutture didattiche sono congestionate, i reparti ospedalieri faticano a garantire tirocini e aumentare il numero degli studenti, anche se per un lasso di tempo limitato, significa più docenti, più aule e più risorse. Che ne sarà di quei giovani che dopo il primo semestre saranno bocciati definitivamente? Tra un anno ne riparleremo.

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Il labirinto? Più che uscirne l’importante è percorrerlo

Nel greco moderno c’è una parola che ha un sapore antico, che porta con sé il profumo del mito e significa letteralmente “labirintico” e ci riconduce automaticamente non soltanto a uno spazio architettonico, fatto di pietre, corridoi tortuosi e meandri oscuri, ma principalmente a un’idea, a un simbolo che attraversa la storia dell’uomo come un enigma irrisolto, come una domanda aperta sulla condizione umana.

Nel nostro immaginario il labirinto ha il volto di Creta, di Minosse, di Pasifae, di un’orribile zoofilia che conduce alla nascita del Minotauro, un mostro con il corpo bipede e la testa di toro che si ciba dei giovani ateniesi. La storia vuole che un eroe, Teseo, lo uccida e aiutato dalla genialità di una donna innamorata, Arianna, riesca a trovare la via del ritorno per mezzo di un filo. Cosa c’è dietro questa narrazione, se non la paura di non riuscire a individuare la scelta giusta, quella corretta, spaventati come siamo dalla possibilità di sbagliare? Ma se per un attimo solo pensassimo che non esistono scelte giuste o sbagliate e che optando per la scelta altra avremmo una visione differente? E se solo smarrendoci nel labirinto arrivassimo al centro del nostro essere? Anche Dante attraversa un labirinto di peccati e redenzioni per giungere al cospetto di Dio. E Borges non costruisce labirinti di parole che diventano rappresentazioni della mente, del destino, delle possibilità? Quelle stesse possibilità che possono farci pensare che il Minotauro non è il nemico, ma la parte di noi che abbiamo rinchiuso, la nostra vera natura che abbiamo soffocato dietro regole, ruoli e aspettative.

Siamo alla ricerca di una vita dove per ogni domanda esiste una risposta, per ogni problema una soluzione, dove non esistono curve ma solo rette, e in questo algoritmo di perfezione l’errore sia una colpa. Una volta entrati nel labirinto, l’importante non è uscirne, ma percorrerlo, come qualsiasi viaggio, proprio come quello di Ulisse raccontato dal poeta greco Kostantin Kavafis, dove Itaca non è la meta ma solo il pretesto per andare. Allora attraversiamolo tutto il nostro labirinto, senza l’ansia di dover necessariamente tenere il filo che ci possa portare fuori, ma quello che ci aiuta a restare, senza la paura di perderci. Impariamo ad abitarlo il labirinto, a sentirlo nostro e da prigione diventerà elemento di trasformazione

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Il latino torna per dare voce all’attualità

Nella scuola che verrà si studierà nuovamente il latino alle medie. Perché tale ritorno al passato? Perché il latino non è soltanto una “lingua morta” ma una finestra su un modo di pensare.

Si tratta dell’impalcatura sulla quale la cultura occidentale si è andata formando ed è la lente attraverso la quale possiamo comprendere il mondo di oggi, quello in cui viviamo, quello con il quale parliamo. Senza latino non ci sarebbe l’italiano né il francese, lo spagnolo e il portoghese.

Senza latino non capiremmo il diritto, la filosofia, la scienza, la politica. Non capiremmo la nostra stessa storia. Ma il latino è anche un viaggio in un mondo che racconta passioni, desideri e sofferenze universali. Pensiamo a Ovidio che descrive l’esilio, la nostalgia, la perdita: non sono questi temi che i migranti oggi ci ripropongono? E Seneca, che insegna come trovare un senso per vivere la quotidianità, o Tacito, che fotografa le grandezze e le miserie del potere, non sono estremamente attuali? Inoltre tutti i giorni adottiamo modi di dire quali “verba volant, scripta manent”, “in vino veritas” o termini come “curriculum”, “gratis”, “lapsus” che sono mutuati testualmente dalla lingua di Cicerone.

In un tempo, il nostro, in cui tutto diventa veloce, impalpabile, liquido, il latino rappresenta una forma di resistenza all’appiattimento del pensiero e un ponte che collega epoche, idee, passioni. E allora perché studiare il latino? Forse è meglio chiederci, ma come abbiamo fatto ad accantonarlo?

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Così gli Dei ci insegnano che la rabbia va ascoltata

Dentro la nostra Anima esiste una forza prorompente e violenta, capace di condizionare i comportamenti umani in maniera imprevedibile. Si tratta della rabbia. Questa emozione emerge in determinati momenti, per esempio quando ci sentiamo feriti, traditi, frustrati. Si tratta di un’energia potente che ci avvisa che qualcosa dentro di noi è in disaccordo con la realtà esterna.

Se impariamo ad ascoltare questa voce interiore, possiamo scoprire cosa davvero ci turba e, soprattutto, cosa dobbiamo cambiare nella nostra vita. Pensiamo agli antichi. L’Iliade, il primo poema della storia, si apre propria con la “menis” di Achille, un’ira funesta e distruttiva che squassa le carni dell’eroe, tanto da indurlo ad abbandonare la battaglia.

La sua ira è motore della storia, segno distintivo del suo essere “diverso” dagli altri uomini, rappresentazione di un codice eroico che non può essere assolutamente violato. Ma questa forza violenta, non è solo un impeto devastatore, porta dentro di sé un qualcosa di catartico, una sorta di trasformazione che conduce ad una crescita interiore. Attraversando tutti i suoi demoni Achille restituirà il corpo di Ettore al padre, raggiungendo un livello di consapevolezza e di forza che segnerà il punto più alto della sua evoluzione.

Solo attraversando le forche caudine della sua “menis” potrà toccare le alte vette, che lo consegneranno alla Storia, come il migliore degli eroi. Ma nel mito anche gli dei conoscono la rabbia. Si tratta di un qualcosa di superiore, di una forza cosmica sottesa a mantenere l’ordine del mondo. Basti pensare a Zeus e alla sua ira furente quando Prometeo dona il fuoco agli uomini. Si tratta di un messaggio chiaro e inequivocabile: il suo potere è incontrastabile e non ammette alcun tipo di sfida.

Il vero insegnamento che il mito ci racconta a distanza di tremila anni è che la rabbia non va negata, ma compresa. Tanto gli dei quanto gli eroi, sono vulnerabili, preda delle passioni, stretti in una morsa che li fa oscillare tra vendetta e perdono, tra furore e ragione. Ed ecco che l’Uomo per arrivare a contemplare “l’amor che move il sole e l’altre stelle” è costretto ad attraversare la propria selva oscura facendo i conti con le tre fiere. La rabbia quindi diventa vero elemento catartico, ma anche strumento di cambiamento, trasformazione e megafono interiore che porta a chiedere: cosa mi sta insegnando questa emozione?

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La televisione e il senso della misura

Bruxelles, 29 maggio 1985, ore 21,03. Dagli schermi Rai la voce di un affranto Bruno Pizzul affermava: «Ho accanto a me il responsabile della Uefa che mi conferma che ci sono 36 morti, mentre un’altra notizia che mi lascia piuttosto sconcertato è che la partita si giocherà».

Era la sera dei drammatici fatti dell’Heysel, quando prima dell’inizio della finale, di quella che allora si chiamava Coppa dei Campioni, il crollo di un settore dello stadio causò 39 morti e 600 feriti.

Il commento di Pizzul fu sobrio e rispettoso, aggiornando costantemente gli spettatori sulla situazione e sottolineando la drammaticità degli avvenimenti, senza cadere nella retorica o nella spettacolarizzazione della tragedia, tanto cara alla tv dei nostri giorni. E questo gentiluomo di altri tempi, dalla voce calda e inconfondibili, si è spento mercoledì nell’ospedale di Gorizia, dove era ricoverato da due settimane, tre giorni prima del suo 87esimo compleanno.

Dal 1986 al 2002 è stato il cronista di cinque Mondiali e quattro Europei, diventando il “cerimoniere delle emozioni collettive” di un intero Paese. Le sue parole hanno acceso le notti magiche e stemperato le sconfitte che fanno male. In un mondo di megafoni e urla, di volgarità e goffaggine, i suoi silenzi hanno riempito lo schermo.

Senza strafare o oltrepassare il limite, tenendo a mente sempre l’imperativo categorico del mondo greco, “kata metròn” (secondo misura), ha raccontato lo sport a tante generazioni. Ma da domani che calcio sarà senza Bruno Pizzul?

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Ecco la mimosa, un fiore contro stress e malattie

Uno dei messaggi che annuncia l’imminente arrivo della primavera è rappresentato dal fiorire di un fiore giallo e luminoso, ovvero l’acacia dealbata, più conosciuta con il nome di mimosa. Si tratta di una pianta originaria della Tasmania, che può raggiungere i 20 metri di altezza e gli 8 di diametro, giunta in Europa all’inizio dell’Ottocento.

Una leggenda narra che la nostalgia della sua terra d’origine la indurrebbe a fiorire nell’emisfero boreale, proprio quando in Australia è piena estate, per risvegliare la Natura ancora assopita dagli ultimi scorci d’inverno. Dal 1946, anno in cui in Italia si celebra la festa della donna, è il simbolo dell’8 marzo.

L’idea di adottarla per celebrare tale giornata nacque quasi per caso, in quanto in un tempo in cui c’erano poche serre e i trasporti aerei molto rari, si scelse un fiore che maggiormente si reperiva nei giardini romani. Era usata come pianta medicinale già dagli aborigeni in quanto la sua corteccia ricca in tannini ha caratteristiche lenitive e antinfiammatorie. Il suo peculiare fiore giallo brillante, oltre a comunicare gioia e voglia di guardare avanti, se distillato diventa un olio essenziale dall’effetto ansiolitico e annusando alcune gocce poste su un fazzoletto permette di allentare gradualmente lo stress. Gli sono riconosciute virtù afrodisiache se diffuso nell’ambiente o miorilassanti se aggiunto ad olio da massaggio.

La presenza di numerosi oligoelementi molto importanti quali rame, ferro, zinco, magnesio e manganese conferiscono a questa pianta notevoli proprietà immunostimolanti e durante un episodio febbrile la corteccia in decotto può alleviare i sintomi, lenendo anche le mucose respiratorie irritate. Inoltre la sua azione antiossidante contrasta la formazione dei radicali liberi, migliorando la circolazione sanguigna e consentendo ai tessuti di ricevere più ossigeno. È utile per via topica in caso di ustioni ed herpes. Gli antichi conoscevano bene queste caratteristiche, tanto che i Maya adoperavano la mimosa per la sua azione lenitiva, ma anche per trattare le conseguenze dei traumi.

In Cina, invece, veniva utilizzato come antidepressivo, come antinfiammatorio, in caso di disturbi digestivi e malattie veneree. Gli indiani d’America individuavano in questo fiore il principio della femminilità e regalavano un mazzetto di mimosa alla donna a cui volevano dichiarare il proprio amore.

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Le parole antidoto alla violenza

Ancora un caso di molestie sessuali è rimbalzato nei giorni scorsi dalle colonne dei giornali e per la precisione riguarderebbe una studentessa di medicina, che avrebbe subito reiterati comportamenti molesti da parte del proprio tutor e tali pressioni l’avrebbero indotta ad abbandonare il tirocinio.

Continuiamo a scrivere articoli, a partecipare a talk show, a pretendere l’educazione all’affettività nelle scuole, a ripetere in ogni dove che non potremo venir fuori da questo tremendo modello culturale, se non cominciamo dalla base, ovvero dall’insegnare il rispetto ai ragazzi e poi scopriamo che un adulto, proprio uno di quelli deputati a dare l’esempio, un medico, proprio colui a cui una donna dovrebbe affidarsi con serenità, è accusato di molestie sessuali. E allora crolla tutto, non ci sono più riferimenti, ci sentiamo indifesi e disarmati. Che fare? Probabilmente prima di guardare a ciò che succederà domani, dobbiamo spostare lo sguardo sul presente, infatti potremmo sperare in un futuro diverso solo lavorando fin da subito.

L’unica arma che ci resta sono le parole, perché le parole sono importanti e con le parole possiamo smascherare gli orchi, con le parole possiamo isolarli, umiliarmi, farli condannare.

Basta silenzi omertosi, e poi regaliamo delle parole anche alle vittime, a quelle ragazze che non ne hanno più di parole, perché le hanno perse nel momento esatto in cui qualcuno le ha costrette a subire l’indicibile, ciò che credevano potesse capitare solo alle altre. Perché a volte gli altri siamo noi.

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L’antidoto al senso di abbandono? Ritrovare te stesso

Quando finisce un amore o qualcuno ci lascia, il primo impulso è quello di aggrapparsi, di cercare spiegazioni, di voler ricostruire ciò che è andato in frantumi, perché l’abbandono è una ferita profonda, un’esperienza che lacera le nostre carni, che ci fa sentire nudi e sconfitti, costringendoci a fare i conti con la nostra impotenza. Eppure malgrado questa sofferenza ci appaia terribilmente unica, si tratta di un’esperienza universale che da sempre attanaglia gli uomini, rivelandone la fragilità.

Lo sapevano bene gli antichi che declinarono questo tema in molteplici forme, dando origine a storie intense e drammatiche. E allora ecco scorrere come su uno schermo figure femminili che sono diventate veri e propri archetipi: Arianna, Medea, Didone. Ognuna di loro è protagonista di una vicenda con un finale diverso. Arianna, per esempio figlia del re Minosse, per amore abbandona la propria casa, il proprio futuro, consente l’uccisione del fratello, il terribile Minotauro, per poi essere lasciata addormentata da Teseo sull’isola di Nasso.

Qui l’abbandono non è una fine, ma un inizio. E’ una ferita che il tempo rimargina, perché nulla è per sempre e dal tessuto connettivo dell’eternità emerge Dioniso che la fa sua sposa e la rende immortale. Anche Medea tradisce per amore, tradisce suo padre e fugge via dalla sua terra. E anche lei ucciderà il fratello e come Arianna sarà abbandonata. Sarà abbandonata da un uomo che le aveva giurato eterno amore, ma i giuramenti non durano per sempre e le persone come le stagioni, cambiano!

Queste storie ci raccontano che la vita è un flusso continuo, che tutto scorre, che ogni legame si può dissolvere e che quanto più crediamo di essere necessari all’altro, tanto più siamo esposti a terribili delusioni legati a un’esistenza senza garanzie. Ma se Arianna e Medea trovano un altrove diverso, dove c’è un amore altro, Didone lasciata da Enea si dà la morte trafiggendosi con la spada del suo amante, mentre lui ignaro è ormai lontano. Ma cosa c’è dietro il dolore per l’abbandono, se non la percezione di aver perso qualcosa che ci apparteneva. Ecco questo è il punto focale: un amore non ci appartiene, non è nostro.

Allora non dare un nome alla tua sofferenza, perché in questo modo le dai forza, la fai continuare ad esistere, ma fai spazio al vuoto che ha lasciato, e solo nel vuoto e nel silenzio puoi trovare ciò che ti serve. Ovvero te stesso, e questo basta!

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