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Sottomissione e contratti, quando si “gioca” sulle fragilità

Durante la seconda udienza del processo che vede come imputato il comandante della Polizia locale di Anzola dell’Emilia, Giampiero Gualandi, accusato di aver ucciso il 16 maggio del 2024 la collega Sofia Stefani di 33 anni.

Dalle carte presentate dalla difesa dei familiari di Sofia Stefano è emerso un raccapricciante contratto di sottomissione stipulato dalla coppia, sottoscritto il 18 maggio del 2023 nel quale il comandante Gualandi si definisce “Supremo” mentre la vittima viene definita “la Schiava”.

Un contratto a sfondo sessuale nel quale entrambi accettano di assolvere a funzioni e ruoli ben precisi dove primeggia la funzione dominante del Gualandi che così afferma: «io signore e padrone, mi impegno a dominare l’anima della mia sottomessa, divorandola a mio piacimento». Una trama interessante e curiosa se si trattasse di un film horror, ma in realtà stiamo parlando di un caso di omicidio consumato nella caserma del piccolo comando di Polizia locale di Anzola dell’Emilia.

Il contratto di sottomissione riconduce alla memoria dei più avveduti lettori al libro di E. L. James “Cinquanta sfumature di grigio”. Qui il protagonista è Christian, un conoscitore del mondo sessuale esperto, che dopo aver vissuto un’infanzia e un’adolescenza tormentata ha sviluppato pulsioni sadiche e possessive che gli fanno vivere delle relazioni solo come dominatore dell’alto.

Ebbene la trama sembra essere la stessa. Da un lato il Comandante in un ruolo verticale di dominio che assolve al compito della figura dominante, maschilista e autocentrato e dall’altro la figura della vigilessa, da poco assunta che, vivendo già un ruolo di subalternità con il suo Comandante, accetta di farsi definire sua schiava e di concedersi non solo coma subalterna nel ruolo rivestito all’interno del Comando, ma anche come subalterna nella loro relazione sessuale. Nel loro ruolo asimmetrico qualcosa ha fatto corto circuito in quanto la storia, in ultima analisi, è terminata con la morte della Stefani.

Dalle testimonianze raccolte sulla scena vi era un Gualandi severamente freddo al contrario degli altri testimoni presenti che non potevano credere ai propri occhi. Sofia non c’è più, quel giorno era riversa a terra nel comando di Anzola dell’Emilia in una pozza di sangue. Un femminicidio che fa pensare a quanto la mente umana sia fragile e facilmente condizionabile. Un copione di un libro riproposto sulla scena reale capace di generare sofferenza e malessere ad una intera comunità. Ora Sofia non c’è più e il Gualandi che era nella stanza con lei quel giorno è l’unico imputato per il delitto della vigilessa. Un delitto che si tinge stranamente di grigio dove il confine tra la realtà e la finzione viene del tutto divelto dalle parole dei testimoni e dal contratto, da entrambi i protagonisti, firmato quasi a sugellare e denunciare la verticalizzazione dei rapporti in alcuni ambienti lavorativi.

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Con le spalle coperte dagli americani, la voce grossa. Ora balbettiamo

L’Ue ricorre al riarmo dei singoli paesi per far fronte ad un ipotetico pericolo rappresentato dalla Russia del Presidente Putin. Si ipotizza lo stanziamento di 800 miliardi per investimenti nella difesa. Ai più sembra quasi che l’Ue stia cercando in tutti i modi di entrare in un conflitto che inizialmente non interessava più di tanto l’Europa, ma che lo si è fatto entrare pian piano nel cuore del vecchio continente.

L’Ucraina non era un paese europeo; noi italiani come altri paesi europei potevamo evitare un’esposizione così marcata a sostegno dell’Ucraina, mentre siamo stati uno dei primi paesi con l’allora ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, a proferire parola contro l’invasore russo, definendo Putin «Peggio di un animale feroce», schierandoci apertamente da una parte ben precisa. Allora, però, noi facevamo la voce grossa come quel bambino che sapendo di essere difeso dal fratello maggiore si permette ogni possibile sproloquio contro l’avversario, ma poi, ad un tratto, il fratello maggiore va via e si trova improvvisamente solo nel pericolo.

In questo momento la parte del fratello maggiore la sta facendo l’America che ha deciso di lasciare sola l’Europa di fronte ad una Russia infuriata per la fornitura di armi che, in nome del principio di difesa di uno stato sovrano aggredito, sono state inviate all’Ucraina. L’Europa, però, non è l’America e si trova improvvisamente costretta a fronteggiare un pericolo più grande di lei. L’Europa è in terribile ritardo sugli armamenti, sull’esercito comune, su un coordinamento militare tra paesi molto diversi tra loro e con esigenze diverse.

Ognuno di essi sta procedendo in autonomia: l’Ungheria non ha mai accettato di inviare armi all’Ucraina, mantenendo una linea prudente; la Polonia, paese più prossimo alla Russia, con il suo primo ministro Donald Tusk, ha deciso di mobilitare e addestrare tutti i cittadini maschi adulti e di formare l’esercito più grande d’Europa con mezzo milione di soldati; i Paesi Baltici, meno estesi dell’Ucraina si sentono vulnerabili e, da quando è iniziata l’operazione Russa, sentono di essere candidati come prossimo obiettivo per un’espansione a ovest del Cremlino, per questo hanno deciso di riarmarsi in linea con quanto deciso dalla Polonia; in Romania le elezioni del prossimo maggio hanno visto escluso il candidato presidente Georgescu, filo russo e ultra nazionalista, favorito alle presidenziali; la Germania, nonostante la flessione del Pil ha deciso di investire in nuove tecnologie per far fronte ai nuovi pericoli russi; la Francia di Macron vuole accentrare la scena politica garantendo lo scudo nucleare a tutta l’Europa e ipotizzando l’invio di truppe direttamente sul campo di battaglia; la Gran Bretagna ha ipotizzato, come la Francia, la possibilità dell’invio di truppe confermando l’appoggio all’Ucraina.

L’Italia, invece, continua a mantenere un atteggiamento bilaterale, rievocando analogie con il 1914, quando decise di non schierarsi al fianco della Triplice Alleanza di Germania, Austria, per aprire le trattative con la Triplice Intesa, trattative che poi porteranno al famoso Patto di Londra che vedrà il nostro paese al fianco di Inghilterra, Francia e Russia contro l’asse degli imperi centrali.

Nonostante non ci sia il pericolo prossimo per un attacco russo all’Europa, quest’ultima ha voluto giocare d’anticipo stimolando una corsa agli armamenti senza precedenti, anche a costo di sforare il rapporto deficit/Pil. Ma la storia non ci viene d’aiuto. Ogni attacco contro non ha portato a buoni esiti, non lo è stato per la Francia napoleonica e non lo è stato per la Germania hitleriana. Basterebbe solo questo per far desistere i paesi occidentali a muoversi verso a direzione del conflitto diretto con Mosca.

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In America, dove questa volta l’abito fa il monaco

Lo scontro televisivo che ha visto coinvolti da un lato il Presidente americano, Donald Trump, e dall’altro il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, testimonia la schiettezza e il pragmatismo con cui l’America intende affrontare i problemi di politica estera: poche parole per raggiungere l’obiettivo. Ascoltando il dialogo tra i due leader, si è fatto avanti il sospetto che tutto fosse preparato per umiliare e mettere in un angolo Zelensky, trattandolo come uno dei dipendenti della Casa Bianca indisciplinato, da redarguire e, se fosse necessario, da licenziare.

Una situazione analoga l’ha vissuta il Presidente canadese, Justin Trudeau, che nei giorni scorsi, durante una telefonata con Donald Trump si è sentito declassato, verbalmente, al ruolo di Governatore come se il Canada fosse uno degli Stati della federazione statunitense e non una Stato indipendente. Un modo d’agire tranchant, immediato, autoritario e senza alcuna esitazione. Ciò che ha, più di altro, condizionato l’incontro americano è stato anche l’abbigliamento del Presidente ucraino, un vestire dimesso, da combattente, afferma qualcuno, operativo, un modo di vestire non adeguato alla circostanza che è risuonato come una mancanza di rispetto per un salotto come quello della Casa Bianca che ha pagato un costo altissimo per proteggere l’Ucraina e che è pronta a fare marcia indietro e ad annullare ogni sussidio in caso di mancata accettazione delle condizioni di pace.

Un detto popolare recita “l’abito non fa il monaco”, ma non in questo caso. Qui più che in altri casi è stato proprio l’abito che ha condizionato la percezione dell’interlocutore ucraino attraverso una dinamica di linguaggio non verbale ben chiara ai conoscitori delle dinamiche di condizionamento psicologico. Ritornando a Zelensky, però, ciò che non va dimenticato, è che nel 2014, in pochi mesi, da semplice e iconico comico della tv trash si è trovato catapultato ad assolvere un ruolo importantissimo, quello di Presidente di uno Stato che, a sua insaputa, ed in poco tempo, è diventato uno Stato centrale sugli equilibri geopolitici internazionali.

Il Presidente ucraino è stato sospettato sin dal 2014 di essere un uomo messo lì dall’America in sostituzione dell’ex Presidente, filo russo, Viktor Janukovic. E il fatto che il Presidente Zelensky sia stato trattato come un subalterno del governo americano e non come il Presidente di un Paese martoriato dalla guerra, avvalora ancor di più i sospetti che, dalla Rivoluzione arancione in poi, avvolgono l’Ucraina, forse sacrificata per interessi ben diversi da quelli percepibili ad occhio nudo.

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Trump cerca accordi con Putin e si prepara a contrastare il colosso cinese

Fa pensare la notizia dell’apertura del neo presidente americano alla Russia, una scelta rapida, immediata, quasi un copione già scritto che lo stesso Trump aveva in serbo da tempo. Va considerato e dato atto che sia stato l’unico ad aver avanzato una proposta di dialogo concreta in grado di porre fine all’inutile massacro che ha sconvolto la regione ucraina. Se la strategia di Trump nasconda un fine molto più ampio lo scopriremo solo con il passare delle settimane, sta di fatto che, oggi, sul tavolo della Casa Bianca ci sono numerosi temi spinosi e vanno a uno a uno affrontati. L’America non può permettersi, oggi, di aprire due grandi conflitti, uno con la Russia e l’altro con la Cina tenendo conto anche della spinosa questione mediorientale.

Aver dato man forte a Israele con l’ipotesi di ricostruire la striscia di Gaza rappresenta un tentativo di controllo dell’area mediorientale in perenne fibrillazione; d’altro canto rinforzare la propria presenza navale nel Pacifico in vista di un possibile scontro diretto con la Cina pare essere una questione più urgente, utile per stabilire la supremazia commerciale e bellica a livello mondiale. Il vero nemico dell’America non è la Russia, indebolita da un estenuante conflitto di posizione dopo tre anni di duri scontri. La Russia ha svuotato gran parte dei suoi arsenali e ha mandato al fronte centinaia di migliaia di uomini, molti dei quali non hanno fatto più ritorno in patria. Un massacro che lo stesso presidente russo, probabilmente, non aveva previsto.

La Russia può rappresentare per l’America un alleato da accontentare in vista dell’obiettivo strategico di indebolire l’asse russo-cinese. Conquistando la fiducia di Vladimir Putin, Trump in realtà ha saputo rompere il “patto d’acciaio” tra Russia e Cina, sapendosi porre come interlocutore più fedele e appetibile, vista la posta in gioco. L’Ucraina non rappresenta un problema, è così dipendente dalle volontà di Washington che non può che accettare le condizioni poste per evitare il taglio drastico degli aiuti, senza dei quali questa guerra non si sarebbe perpetuata per tre lunghissimi anni.

La regione ucraina come accadde dopo il primo conflitto bellico resterà come una conquista mutilata. Il territorio che solo parzialmente era stato conquistato dalla Russia potrebbe essere suddiviso in due zone di influenza: quella occidentale sotto il controllo americano e quello orientale sotto il controllo Russo, compresa la regione del Donbass. Un bottino importante che non rappresenterebbe una resa per la Russia, anzi una vittoria, con un protettorato molto più esteso delle aree conquistate.

Questa spartizione richiamerebbe alla memoria quella che è stata la Germania nazista dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra aprile e luglio del ’45, quando le truppe americane e quelle russe si trovarono insieme a Berlino a dover decidere il futuro del Reich. In questo caso non ci troviamo di fronte ad un regime totalitario bensì ad una regione russofona senza alcuna ambizione espansionistica o imperialistica. Quindi, l’Ucraina dal 2014 in poi si è trovata prima ad essere travolta dalla rivoluzione arancione con la caduta del Presidente filorusso, poi ad essere occupata, in parte dalla Russia per la Crimea e le regioni ad Est ed infine, oggi, potrebbe essere divisa in due zone di ingerenza: Ucraina Ovest e Ucraina Est. In tutto questo l’Europa non ci sta. Macron ha ribadito a Trump che il 60% degli aiuti sono stati forniti dal vecchio continente e quindi vuole la sua parte, ma si profila una trattativa complessa e non scontata. Intanto il Presidente Zelensky ha dato la sua disponibilità alle dimissioni e alla cessione delle terre rare a Washington.

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Sono solo canzonette utili a distrarre lo spettatore

Terminato, non senza lasciare polemiche, il Festival di Sanremo. Per giorni ci siamo assopiti ad ascoltare delle canzoni, non le migliori del panorama artistico italiano, ma per lo meno ci siamo distratti su un divano non pensando ai problemi dell’Italia e dell’Europa.

Alcune famiglie si sono unite attorno alla televisione, altre si sono divise nel tifo o scommettendo sui vincitori. Alcuni per un momento si sono sentiti dei bravi critici musicali vantando esperienza pluriennale nell’ascolto di canzonette e altri hanno rispolverato le canzoni delle edizioni passate aprendo la scatola dei ricordi. Come al solito il motto “vinca il migliore” non ha avuto seguito.

La manifestazione canora più seguita d’Italia sembra essere nata proprio per questo. Una selezione di cantanti non del tutto all’altezza, ospiti ben precisi tra cui Roberto Benigni che riesce a far risvegliare gli appisolati con i suoi monologhi. La grande selezione in fondo esclude quasi sempre cantanti di talento come è accaduto quest’anno per il pugliese Al Bano. La città di Sanremo riesce a sollevare la propria economica mantenendo salda la sua tradizione legata al settore florovivaistico e gli hotel risultano tutti pieni senza la possibilità di un posto libero. Ma, dopo tre giorni, si giunge finalmente alla domenica dove proprio gli esclusi, i perdenti, i poco votati vengono coccolati, fatti salire sul palco e apprezzati come se avessero loro vinto il Festival.

Un Festival dell’ipocrisia, dalla doppia faccia, si cerca di far salire sul palco giovani promesse, di illudere il pubblico facendo passare per buona musica delle canzonette orecchiabili e poi si dà il premio al mediocre, a colui che, ci avresti giurato, che sarebbe arrivato ultimo, a quello che non ti aspetti, al cantante che può far parlare di sé nel dopo Festival o che, proprio perché mediocre, può attrarre su di sé le critiche più disparate che alimentano le due settimane di gossip successivo alla manifestazione. Per alcuni il Festival è una manifestazione imperdibile, il conforto del divano, una cena fugace e tutti inchiodati sullo schermo a giudicare i capelli di quel cantante, i tatuaggi di quell’altro, la lunghezza del vestito di tizia o di caio. Vestiti originali che improvvisamente diventano di tendenza, catenacci che dovrebbero servire per bloccare un motorino e, invece, sostituiscono una collana. Un Festival del kitsch.

L’Italia si divide in fazioni: quelli che il Festival lo vedono e quelli che il Festival lo ignorano mostrando tutto il loro disprezzo per un evento che non gli corrisponde e non ne apprezzano neanche la musica; e, infine, quelli che dicono di non vederlo e poi conoscono tutti i testi e le canzoni e sanno anche giudicarne la qualità. Insomma, il Festival rappresenta le contraddizioni di un’Italia in cui la mediocrità spesso ha la meglio, le persone di talento sono escluse dai giochi e ciò che ha più spazio è la polemica sulla mediocrità imperante. Diciamo pure che si tratta di un ennesimo distrattore di massa in grado di proporre ciò che è scadente come prodotto di qualità e che mentre da un lato esalta dall’altro destina il vincitore al dimenticatoio.

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L’iniziativa di Trump e i silenzi dell’Europa nel conflitto tra Russia e Ucraina

Un detto popolare recita “Se Atene piange Sparta non ride”. Un modo di dire che ci conduce alla situazione che l’Ucraina sta vivendo in queste ultime settimane tra la possibilità di una tregua e l’inasprimento del conflitto con la Russia.

Il Paese, stremato da tre anni di guerra, rischia di doversi trovare solo ad affrontare una Russia tenace nel rivendicare i propri obiettivi. A tre anni dall’avvio delle operazioni militari è giunto il momento di fare un piccolo bilancio di quanto accaduto. Dal 22 febbraio del 2022, quando la Federazione Russa riconosceva l’indipendenza delle province del Donbass per poi poter correre in loro soccorso contro l’Ucraina, sono trascorsi più di mille giorni con gravi perdite da entrambe le parti.

Lo Stato maggiore dell’esercito ucraino afferma che dall’inizio del conflitto le perdite russe superino le 700mila unità, tenendo conto anche dei feriti e dei dispersi. A questo vanno a sommarsi le corpose perdite tra le fila dell’esercito ucraino con una stima di 800mial caduti, più di 3600 scuole distrutte e più di 1600 presidi sanitari inceneriti sotto le bombe dell’avanzata russa. Un grande colpo alla demografia e all’economia di entrambi i territori. Secondo uno studio dell’Ispi in Russia si è oggi in presenza di un’economia di guerra il cui unico obiettivo è quello di dare man forte al conflitto sacrificando la spesa pubblica destinata alla sanità o all’istruzione, per le quali vi è un investimento del solo 5% del Pil. L’inflazione nelle Federazione Russa si attesta intorno al 9,5%, mentre le imprese sono strozzate dalla crescita esponenziale dei tassi di interesse e non sono più in grado di restituire i prestiti contratti. Il rublo negli ultimi mesi dello scorso anno si è dimezzato e inabissato nei confronti dell’euro e del dollaro.

D’altra parte, benché l’Ucraina stia subendo i contraccolpi di una guerra in proporzione più grande del suo potenziale bellico ed economico, la situazione, nonostante gli ingenti aiuti internazionali, non appare migliore di quella russa. L’economia è allo stremo, il Pil è crollato di un terzo e i tassi di interesse si attestano intorno al 26% con un tasso di inflazione sceso al 5,2% dopo il picco del 26% toccato con l’inizio del conflitto. Quindi ci si chiede chi sia il vero vincitore? In una guerra di logoramento come quella russo-ucraina non si può affermare che ci siano vincitori, a perdere sono entrambe le parti e, sebbene le ultime esternazioni del Presidente americano mirino a cercare una conclusione del conflitto, entrambe le parti in causa puntano ad ottenere il massimo in un arroccamento difensivo che salvaguardi la situazione economica e sociale post-bellica.

Va dato il merito a Trump di aver avviato delle consultazioni sia con Vladimir Putin sia con Volodymyr Zelensky. In realtà, probabilmente, entrambi non aspettavano altro vista la situazione. Ma dove si nasconde l’Europa? Possiamo prevedere, come ha affermato sulle pagine del Corriere della Sera l’eurodeputato francese Raphaël Glucksmann che l’Occidente è finito e che l’Europa si appresta a vivere un periodo di riarmo inaspettato? L’Europa non è abbastanza unita per affrontare il pericolo di una guerra contro la Russia. Da un lato vi sono i paesi Baltici che difendono a spada tratta l’Ucraina; paesi come l’Ungheria si sono sempre schierati contro le sanzioni alla Russia e appaiono scettici di fronte alle strategie adottate dagli altri paesi dell’Unione; poi vi sono paesi come l’Italia che un tempo vantavano buoni rapporti con la Russia e che adottando una linea comune con gli altri paesi Nato, si trovano oggi a dover fronteggiare, se l’America uscisse di scena, in completa solitudine una crisi internazionale. Il grande timore è proprio quello che il grande progetto europeo possa giungere al capolino con piccole e conseguenti defezioni che minino la stabilità economica e sociale di tutto il territorio.

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I feudatari del terzo millennio e i pericoli per la democrazia

La questione dei dazi americani tiene banco. Donald Trump non annuncia misure restrittive solo per Cina, Canada e Messico, i suoi obiettivi strategici a breve tempo, ma si spinge oltre incurante delle ripercussioni che una tale decisione possa avere sull’economia non solo dei paesi obiettivo ma anche sulla stessa America.

Le parole espressa da Xi Jinping non sono chiare, una misura restrittiva a livello economico non colpirà solo la Cina, ma avrà effetti anche per l’America. Non hanno mai avuto l’esito atteso le restrizioni economiche in un mondo sempre più globalizzato. Sembra chiaro come il gioco sia quello di isolare sempre più l’America in un protagonismo solitario sullo scacchiere internazionale, soprattutto se si pensa all’azione intrapresa contro la Groenlandia che ha generato la mossa della Nato in pronta risposta elle minacce americane.

Trump non solo ha deciso di dichiarare la guerra economica nei confronti dei suoi nemici commerciali, ma allo stesso tempo ha intrapreso una campagna di epurazione interna contro coloro che si sono schierati contro di lui nel processo che lo ha visto protagonista.

Un errore quello di penalizzare l’economia per un determinato fine politico.

Le restrizioni attuate dal governo Trump potrebbero rivelarsi deleterie, ma soprattutto per la stessa America. Non a caso il presidente Sergio Mattarella, intervenuto all’inaugurazione dell’Università di Marsiglia, non è stato affatto rassicurante, interpretando senza mezzi termini quello che sta accadendo.

Si assiste al riaffacciarsi dello spettro delle “sfere di influenza”, uno dei mali del ventesimo secolo, l’ingresso sulla scena di “neo-feudatari del terzo millennio”.

Oggi come negli anni ’30 del secolo scorso “anziché la cooperazione, a prevalere fu il criterio della dominazione” che hanno distinto l’azione tedesca nel progetto del Terzo Reich e che oggi ha mosso la Russia contro l’Ucraina, che potrebbe muovere la Cina contro Taiwan, l’America contro Groenlandia, Panama e non per ultima la striscia di Gaza.

Attraverso una lezione magistrale di storia, il presidente Sergio Mattarella ha ricordato l’abbaglio che fa vedere i regimi dispotici, autoritari e illiberali, efficaci per la tutela degli interessi nazionali. A preoccupare è la defezione nei confronti della Società delle Nazioni avvenuta nel secolo scorso da molti stati prima della Grande Guerra e ora annunciata dall’America nei confronti del Consiglio dell’Onu per i diritti umani.

Il dialogo e la cooperazione cedono il passo all’isolazionismo e al protezionismo in una corsa solitaria all’autoaffermazione di interessi nazionali.

Fu proprio questa “spirale di protezionismo, di misure unilaterali, con il progressivo erodersi delle alleanze” a dare spazio a movimenti nazionalisti e a regimi autoritari in Europa.

Oggi come allora la comunità internazionale appare divisa e poco preparata ad affrontare la vera crisi che si sta affacciando, non quella di una singola area locale ma una crisi globale capace di coinvolgere tutti i paesi da oriente fino ad occidente in una corsa neo imperialista incapace di leggere con attenzione l’insegnamento della storia.

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Le nuove diaspore dei popoli: quando il giorno della memoria si dimentica dell’attualità

Anche quest’anno si è commemorato il 27 gennaio come “Giorno della memoria”, un ricordo vivo nella mente di chi ha vissuto la prigionia nei campi di concentramento come Liliana Segre e tanti altri ebrei.
Un giorno di grande lutto e dolore.

Nelle scuole si vedono documentari, si leggono pagine di libro per mantenere vivo il ricordo.
Quest’anno ricorrono gli ottant’anni dal gennaio del 1945, quando le truppe russe in marcia verso occidente scoprirono l’esistenza del campo di Auschwitz e, come ogni anno, la vicinanza affettiva intorno ai sopravvissuti è diventata una consuetudine doverosa. Gli ebrei sono stati un popolo che per secoli ha vissuto la diaspora senza avere una propria terra, uno stato che li rappresentasse, tutto questo fino a quando il 14 maggio del 1948, il presidente del Consiglio nazionale ebraico Ben Gurion proclamò la fondazione dello Stato di Israele.

Inevitabilmente, in questi giorni, il pensiero va alla stessa sorte che sta vivendo la popolazione palestinese, una fuga lungo la striscia di Gaza di 300 mila persone sfollate che cercano invano di raggiungere il nord per fare ritorno presso le proprie abitazioni. Queste abitazioni sono state ormai distrutte dai bombardamenti israeliani e di loro resta ben poco o forse nulla.

Quindi, gli osservatori internazionali, pur comprendendo la diversa situazione di oggi e le cause che hanno scatenato la furia israeliana contro Hamas, non riescono a non notare come i palestinesi appaiano il nuovo popolo della diaspora, senza uno Stato e senza una propria identità territoriale. Dal raid del 7 ottobre 2023 è trascorso più di un anno e, in quell’occasione vennero uccise da parte di miliziani di Hamas 1200 persone e rapite 250 persone.

Le operazioni israeliane che ne seguirono hanno portato al bombardamento della striscia di Gaza con un bilancio di oltre 48 mila persone e gran parte delle abitazioni distrutte. L’emergenza umanitaria è sotto gli occhi di tutti, migliaia di persone in cammino verso nord nella speranza di ritrovare le proprie abitazioni integre, consapevoli del disastro che li attende, eppure in migliaia continuano a camminare senza sosta, giorno e notte per poter ritrovare qualcosa della loro vita, qualcosa che li ricongiunga alla loro casa, alla loro precedente vita.

Parafrasando una celebre frase di Jean Paul Sartre, “L’inferno sono gli altri”, possiamo dire che il vero inferno a cui stiamo assistendo in questi giorni non è la lunga passeggiata della gente della striscia di Gaza da sud a nord, bambini, anziani e disabili, ma la presenza ciclica e costante nel mondo di qualcuno in grado di dar vita a quelle condizioni che hanno favorito ciò che sta accadendo e la certezza che non sarà certo l’ultimo triste epilogo a cui assisteremo.

L’inferno sono gli altri che armano i propri cannoni ignari del fatto che a soffrire resterà solo la povera gente indifesa e disarmata.

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Il ritorno del trumpismo alimenta nuove incertezze

L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca ha fatto rumore, come era prevedibile. Nel grande giorno non ci si è fatti mancare nulla: il saluto romano di Elon Musk, la ventolata conquista di Marte da parte dell’America, i faldoni pronti alla firma per i primi provvedimenti riguardanti i migranti, la pena di morte federale, la riduzione dei militari in Europa del 20%, i dazi per una politica economica protezionista, la revoca degli accordi di Parigi sul clima e le politiche green, la cessazione del conflitto russo-ucraino o, in alternativa, sanzione a go go, la grazia per gli insurrezionisti di Capiton Hill e l’annessione della Groenlandia.

Ciò che è stato dichiarato e firmato dal 47esimo Presidente americano dà un chiaro segnale del nuovo volto dell’America post Biden.

Ai punti già citati si aggiunge la militarizzazione del confine con il Messico e la caccia agli immigrati irregolari in scuole, ospedali e chiese.

Come dire, tanta carne sul fuoco. Altre esternazioni hanno visto il neopresidente scagliarsi contro l’Europa che investe poco nel made in America e il possibile stato d’accusa per l’uscente presidente Joe Biden, un impeachement postumo.

Tra i diversi provvedimenti alcuni hanno avuto particolare risonanza, come la reintroduzione della pena di morte Federale che viene adottata nei casi di uccisione di un agente federale o per reati capitali commessi da uno straniero illegalmente presente nel paese.

Discutibile e non accolto con grande entusiasmo è stato il provvedimento riguardante la revoca degli accordi di Parigi del 2015 che hanno dato vita al Trattato che sanciva l’obiettivo di ridurre l’emissione di gas serra e la gestione dei cambiamenti climatici, mettendo in soffitta tutte le premure per un futuro più sostenibile e verde.

La questione dei migranti irregolari tiene particolarmente banco in quei provvedimenti che prevedono l’identificazione e l’espulsione di coloro che non sono regolari cittadini americani.

Pare delinearsi una politica aggressiva, isolazionista e protezionista dell’America che non si risparmia, per voce del suo Presidente, di adottare una tassazione del 15% alle imprese disposte ad investire nella grande mela.

Ma in tutto questo ci si chiede che fine abbia fatto l’Europa. Quest’ultima in nome del processo di democratizzazione del mondo ha deciso di intervenire in modo massiccio in difesa dell’Ucraina, dando man forte alla controffensiva di Kiev con missili, carri armati e jet oltre a tutti gli armamenti necessari ma non ha considerato l’ipotesi di restare completamente da sola a far fronte all’avanzata della Russia in quella che, molti commentatori, hanno definito una riconquista dei territori della vecchia Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

In fondo, anche altri grandi stati stanno reclamando la revisione dei propri confini geopolitici, non da ultima la stessa America con la Groenlandia, il Canada e lo stretto di Panama. In estremo oriente, invece, la Cina continua a minacciare la presa di Taiwan. Uno scenario internazionale complesso che nei prossimi mesi si schiarirà in funzione delle prossime mosse assunte dai vari attori.

Ciò che fa rimanere perplessi, nonostante le rassicurazioni della Von der Leyen è proprio la statica e, in parte, poco compatta presenza europea in tutto questo spettacolo di riposizionamento che potrebbe concludersi con un accordo tra i tre colossi mondiali, America, Russia e Cina senza tener conto del resto del mondo.

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Quando tornano i mostri del passato

Fa discutere la decisione presa in Germania dall’Afd di inviare a 30mila persone, immigrati stabilizzati, un biglietto di espulsione di solo andata datato 23 febbraio 2025, coincidente con il giorno delle elezioni federali tedesche. Da una grossolana quanto approssimativa interpretazione, non molto distante dalla realtà, il partito di ultradestra, auspicando la propria elezione, garantisce la certa espulsione degli immigrati, accompagnata dal motto “Solo la remigrazione può salvare la Germania”.

Il biglietto è corredato di Qr che rimanda direttamente al sito dell’Afd di Karlsruhe dove è possibile scaricare il biglietto e seguire le indicazioni del partito. La storia, come diceva Gian Battista Vico, vive di corsi e ricorsi storici e mai come in questa fase sembra attuale questa massima che ci riporta inevitabilmente ad un periodo buio della storia d’Europa. Questa sensazione viene oltremodo amplificata dalla vicinanza alla ricorrenza del 27 gennaio, il giorno della commemorazione delle vittime della Shoah. A un tratto l’Europa si è svegliata dal quieto sonno di decenni e si trova a rivivere i mostri del passato. E all’improvviso si viene catapultati dal 2025 al 1925, quando cent’anni fa Adolf Hitler pubblicò il suo Mein Kampf, otto anni prima di diventare capo assoluto del partito nazista.

A tal proposito non si può far a meno di ricordare i provvedimenti legislativi varati dalla Germania nazista nel settembre del 1935, meglio conosciuti come Leggi di Norimberga. Allora il processo di integrazione degli ebrei in Germania, avvenuto in molti anni, subì un drastico arresto e ad essi fu intimato di lasciare entro sei mesi la Germania, pena il pagamento di un’ammenda. Queste leggi vennero varate per disciplinare la cittadinanza nel Reich e per proteggere il sangue e l’onore tedesco.

Gli eventi appena citati fecero da sfondo all’evento tragico e delittuoso che si materializzò nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 meglio noto come la Notte dei cristalli. Solo un mese prima, il 18 ottobre del 1938 il regime decise l’espulsione dalla Germania degli ebrei polacchi, anche se residenti da molti anni legalmente nel Paese. Circa 12mila persone, allora, furono costrette in una notte a lasciare le proprie abitazioni prendendo lo stretto necessario e furono riportati verso il confine con la Polonia. Ma non tutti riuscirono a superare il confine. Ma fu la notte tra il 9 e 10 novembre che decretò la degenerazione verso l’antisemitismo più acerrimo. Vennero rastrellate sinagoghe, negozi e ogni abitazione privata di ebrei. La memoria dei fatti che caratterizzarono quella pagina buia d’Europa non possono che farci rabbrividire di fronte anche al solo accenno a fatti e azioni discriminatori, creando sgomento e paura per le conseguenze che tali scelte possano creare, così come la storia ci insegna.

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