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Il carcere dev’essere ravvedimento e positivo desiderio di rivalsa

Al di là delle sbarre, una pena efficace e una profonda riflessione su un processo di riqualificazione del sistema carcerario, oltrepassando le criticità del momento. Le presenti riflessioni partono dalla esperienza vissuta all’interno dell’Istituto di Pena e sottolineando la centralità del tema, in un momento storico che deve approdare a una pragmatica convergenza, al fine di determinare soluzioni strategiche adeguate. Studiando la storia della mitologia greca, ho posto particolare attenzione sulla figura di Icaro, personaggio apicale in ragione del concetto di forza e di onnipotenza.

Ogni ristretto, come Icaro, è chiamato a superare un limite dettato da una situazione contingente, limitativa e sofferente. Per oltrepassare tale limite è necessario, inevitabilmente, partire da un’attenta introspezione, per comprendere i propri errori, maturare un ravvedimento e armare un senso di coscienza rinnovato. Solo a quel punto è possibile, come statuito dall’articolo 27 della Costituzione, aderire a un percorso riabilitativo che sia di forma e di sostanza. È necessario oltrepassare il limite indotto dalla sofferenza causata dalla lontananza dai propri cari. Al di là delle sbarre, c’è un contorno familiare che attende il ritorno del proprio caro, con l’auspicio che sia un ritorno che non preveda più allontanamenti e partenze.

In questo, proprio come per il mito preso a riferimento, anche le persone care devono oltrepassare il dolore del tempo e della distanza, cercando di creare una vicinanza indissolubile, non scalfita da barriere di tempo e di luogo, al contrario tutto sarebbe ricollocato nell’ambito dell’oblio del nulla o del superficiale. Proprio come in un labirinto, risulta necessario individuare una via di uscita luminosa per realizzare i desideri di liberazione e maturare la volontà di spiccare il volo verso mete soleggiate.

Sono tutti pensieri indotti dall’introspezione che ogni recluso fa in solitudine e nell’isolamento della propria cella in attesa di un nuovo giorno. Solo la luce può illuminare il cammino, solo gli affetti possono colorare i percorsi, solo la speranza può fornire la spinta ad andare avanti e ad oltrepassare il limite del labirinto. Ovviamente, non bisogna volare troppo in alto perché un’eccessiva altitudine può determinare il crollo della speranza e distruggere, inesorabilmente, il sogno di libertà. Bisogna partire dalla sfera affettiva vicina e ambire a raggiungerla, con il sacrificio, a discapito del facile benessere e dell’illusorio valore del bene materiale. La ricchezza può affabulare, mentre i sentimenti del bene e dell’amore aiutano a costruire castelli capaci di resistere al tempo e alle distanze. Ogni giorno di lontananza dev’essere utilizzato per creare vicinanza, per sconfiggere l’inquietudine, per eliminare la sofferenza. Il tempo ozioso fagocita, quello impiegato con impegno pervicace, animosità e volontà costruisce ponti. È necessario, per oltrepassare le zone d’ombra del passato, ridefinire il proprio progetto di vita, ricalibrandolo su finalità e obiettivi nobili, che si sposino con il vivere tranquillo e che siano conformi al rispetto e all’amore del proprio sé, dei propri cari, del prossimo. Solo così le persone potranno essere guardate negli occhi con rispetto, nella tutela della libertà e dei diritti altrui.

Ovviamente, le ali che consentono tutto ciò non devono essere costruite con la cera: si scioglierebbero al sole. Devono essere supportate da un impegno individuale, coadiuvato da tutti coloro che quotidianamente offrono, con spirito di abnegazione, il proprio supporto affinché il peso del percorso si alleggerisca. Il volontariato, trasparente e genuino, offre questa possibilità che deve essere colta come un raggio di sole che il Mondo Divino invia per illuminare l’oscurità della cella. Oltre le “sbarre” c’è la vita che chiama, c’è un figlio che attende il proprio papà per condividere gioie e dolori o che, più semplicemente, vuole giocarci insieme. La vita è meravigliosa, in quanto palcoscenico in grado di fornire tante sceneggiature, tante opportunità, tanta ricchezza immateriale. L’orientamento al bene deve distruggere il limite indotto dal disorientamento del male, deve fare uscire dal labirinto, far sì che la luce del sole sia apprezzata, evitando che l’eccessivo calore dei suoi raggi possa sciogliere i propri sogni. Solo così si potrà spiccare un volo alto e sicuro, non pindarico e distruttivo, che possa permettere di raggiungere Atene. Prima di arrivare all’obiettivo, prima di volare, c’è un cammino da affrontare e delle sofferenze da patire. La magnificenza è proprio questa, e quelle ali diventano ali della libertà.

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Quando una stretta di mano diventa luogo di dialogo in un sistema problematico

Ci sono luoghi in cui la stretta di mano non è mero gesto di cortesia. Il carcere è uno di questi. Per molti, per coloro che conoscono gli istituti penitenziari solo attraverso documentari e servizi giornalistici, le mani fuoriescono dalle sbarre delle celle, simbolo di una libertà ormai smarrita; rappresentazione del disagio e di un’attesa che non ha dimensione temporale. Ma, per chi ha calpestato il pavimento di quei corridoi tutti uguali, attraversato sezioni e passaggi, ascoltato il rumore di chiavi e cancelli, le mani assumono un altro significato. Il saluto e la stretta di mano, sempre e comunque, sono tra le regole non scritte del carcere.

Non è stanca abitudine l’ostentazione di un’educazione in parte ritrovata, a tratti forzata. Non era, non è ubbidienza alla realtà ristretta. In quel contatto, la persona detenuta ritrova la sua identità, oltre il reato.
A quel gesto veloce, distratto, affida la sua dimensione di essere umano in un luogo in cui le emozioni sono soffocate. Stringere la mano a chi arriva dall’esterno significa depositare la propria storia, seppur per qualche istante, scambiare energie.

Così, dentro un sistema freddo e problematico, lo spazio rispettoso dell’umano ritrova la sua essenza, anche grazie a persone che credono nel proprio lavoro o nella propria opera di volontariato. I primi – agenti penitenziari, educatori, sanitari, amministrativi, insegnanti – spesso rinunciano al limite sterile del ruolo, per colmare di umanità un luogo in cui, nonostante il sovraffollamento, si sommano solitudini silenziose.

I secondi – i volontari – con grande forza di volontà e un pizzico di ostinazione, contribuiscono ad accompagnare le persone ristrette nel loro percorso rieducativo, rappresentando un aiuto per un reinserimento concreto. Sono un ponte, i volontari; sono il laccio necessario per ricucire lo strappo avvenuto con la società e hanno un compito molto delicato, nella misura in cui rappresentano il contatto con un mondo lontano, a volte ostile.

La gratuità del loro intervento diventa punto di forza: entrano in un rapporto dialogico con i detenuti e riescono, talvolta, persino a disinnescare tensioni ed eventi critici, attraverso la loro presenza affettiva.
Ma, non solo. La storia racconta che riescono a connettere le diverse realtà presenti nel carcere e a facilitare la realizzazione di eventi che sembravano quasi impossibili, all’interno di un Istituto di Pena. I due obiettivi principali di queste azioni sono: sensibilizzare la comunità sul diritto a scontare una pena che sia dignitosa ed elaborare progetti. Iniziative solidali che rinsaldano quel ponte, anche grazie a un lavoro di rete con le risorse socio-assistenziali presenti sul territorio.

Nell’esercizio dei precitati ruoli si mettono a disposizione le proprie competenze, supportate da un sentimento di solidarietà che spinge ad interessarsi ed occuparsi delle persone detenute, dei loro familiari e dei loro problemi.

Non con l’arroganza di chi vuole sostituirsi alle Istituzioni, ma semplicemente cercando di essere un elemento coinvolgente di mutamento, di conforto individuale e di sviluppo comune. Manifestare attenzione, dedicare del tempo alle persone detenute non significa affatto sottrarre interesse alle vittime, anzi. Il volontario esercita una funzione di testimone del tempo della memoria, affinché le sofferenze patite possano diventare parte attiva della coscienza individuale e civile del reo.

Il volontario, proprio perché consapevole del dolore delle vittime, contribuisce col proprio servizio alla prevenzione del comportamento deviante e, quindi, alla riduzione della recidiva. Attraverso la sinergia e la collaborazione, in soverchio ossequio ai ruoli ricoperti, la pena può tramutarsi da tempo trascorso in tempo vissuto, divenendo effettivamente strumento di riflessione e reinserimento.

Una pena trascorsa non determina cambiamento e maturazione, ma, al contrario, tende ad un immobilismo che logora e deteriora, senza lasciare speranza. Tendere alla riabilitazione del reo significa tendere una mano che è pronta ad accompagnare e non a dileggiare e a mistificare.

La famosa stretta di mano che, come afferma Papa Francesco, deve servire a rialzare colui che ha scoperto il dolore della caduta, precludendo che lo sguardo dall’alto in basso sia emblema di discriminazione ed emarginazione. Una mano che conduce ad una luce e che riconnette ad una libertà vera e non alla prigionia di una libertà opaca.

Difatti, solo con una pena efficace e con ravvedimento operoso si arriva ad uno stato di incondizionata libertà, senza il rischio di una ricaduta nella vischiosità dell’azione. Il confronto, la condivisione, l’esperienza del bene e la sana stretta di mano abbattono il male, l’inerte ozio e i pensieri deviati e devianti. La legalità passa inevitabilmente anche attraverso questo crocevia, ovvero attraverso opere di sensibilizzazione che hanno efficacia preventiva e risocializzante. Credere nei valori portanti dell’assetto civile significa, non solo, praticarli ma disseminarli con amore e opera di persuasione.

Sfiorare le anime e fare avvertire quella ebbrezza di pace rientra in un paradigma universale che conduce al piacere di una vita comunitaria, senza barriere fisiche e metafisiche.

L’uomo è chiamato ad avvertire colori, suoni, suggestioni presenti, ma non sempre evidenti. Emily Dickinson, nota Poetessa Statunitense, nel parafrasare l’attesa del mese di Marzo, afferma: «Le cose che ignoriamo sono in cammino», proprio quel cammino che, con i suoi odori e sapori fantasmagorici, deve condurre alla libertà come baluardo inattaccabile, lontano dal crepuscolo del male.
Una scelta tra la vita e la morte.

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Processi riabilitativi di persone recluse e il ruolo esercitato dai volontari

Un anniversario e una riflessione. Il decimo anno da assistente volontario in carcere, ex art. 78 dell’Ordinamento penitenziario, ha segnato particolarmente lo stato emotivo dello scrivente, il quale è risultato arricchito dall’esperienza vissuta a livello umano, rinforzando la propria propensione verso l’aiuto e verso la collaborazione.

Difatti, il rendersi disponibile, senza termini e condizioni, rende il proprio essere una risorsa che si pone al servizio della collettività, cercando di lenire la sofferenza della emarginazione e della discriminazione, in soverchio ossequio a quanto statuito dall’art. 3 della Costituzione.

Frequentare periodicamente un Istituto di Pena, sia come assistente volontario, sia come rappresentate di una Istituzione Scolastica legata da Patto di Comunità con il precitato, consente di divenire protagonista del processo riabilitativo dei soggetti reclusi. Nel corso degli anni, con la collaborazione dell’Area Trattamentale, della Polizia Penitenziaria e sotto la vigile egida della Direzione, sono state realizzate diverse attività socio-ricreative, che ha visto protagonista attiva la popolazione detenuta, sempre partecipe alle medesime iniziative, con entusiasmo e impagabile coinvolgimento. Tutte attività che, a parer dello scrivente, hanno sortito un effetto positivo all’interno del regolare svolgimento della vita comunitaria dell’Istituto di Pena, quest’ultimo rivelatosi Istituto impegnato e laborioso nelle attività di vigilanza e redenzione, proprio all’insegna dei principi statuiti dal Santo Protettore Basilide.

Come dimenticare poi i momenti di condivisione e socialità in carcere nei periodi natalizi e nei periodi Pasquali, ovvero quei particolari momenti in cui la detenzione diviene oltremodo opprimente, considerata la lontananza coatta dai propri cari. La pena è la conseguenza in danno che uno Stato civile ed emancipato riconnette ad una condotta criminosa, a scopo repressivo e riabilitativo. In tale periodo il peso della restrizione dovrebbe indurre una sana riflessione, al fine di considerare un nuovo approccio di vita, nel momento in cui si è riammessi in libertà.

Tra i compiti dei volontari vi è, senza dubbio alcuno, anche il supporto e lo stimolo a realizzare una sana introspezione che, se efficacemente compiuta, porta alla piena liberazione, non solo fisica ma, soprattutto, mentale, riproponendosi nell’intorno sociale con spirito rinnovato.

D’altronde il senso dell’art. 27 della Costituzione è proprio questo, tendere, attraverso le pene, alla rieducazione del reo. Tale processo si realizza solo se strategicamente ben strutturato e supportato, altrimenti resterebbe solo la mera declamazione verbale.

Tra i momenti apicali vissuti in questi anni, è stata la partita di calcio, disputata grazie all’’associazione bambini senza sbarre, tra ristretti padri e ristretti non padri, alla presenza dei familiari. Emozionante è stato vedere gli abbracci tra padri e figli e la gioia di quest’ultimi. In questi frangenti, si percepisce come un macigno, al presenza dei cosiddetti ‘Colpevoli di innocenza’, ovvero quei figli che si vedono privare di figure genitoriali di riferimento, per cause e responsabilità a loro non attribuibili. E a volte il disagio sfocia nel disagio, provocando squilibrio sociale.

L’aspetto più saliente dell’operato di un volontario è la predisposizione all’ascolto, attività fondamentale per chi è recluso, che in questi momenti non trova risoluzione ai propri problemi ma trova sollievo nello sfogarsi e nel raccontarsi.

L’ascolto è oggi, purtroppo, un’attività trascurata e accantonata per i ritmi frenetici della vita, la cui assenza ha determinato dissapori e malesseri, non solo all’interno degli Istituti di Pena, ma proprio all’interno della società civile.

Annoverabile tra le attività svolte, è senza dubbio l’organizzazione delle raccolte di capi di abbigliamento da destinare ai soggetti più disagiati, perché il disagio e la povertà sono presenti ovunque.

Il volontariato in carcere rientra nel cosiddetto alveo del ‘ volontariato istituzionalizzato’, in quanto per sovraordinati motivi di sicurezza, le attività svolte devono essere tracciate e tracciabili in maniera inequivocabile.

Ma esiste anche un volontariato accudente, silente che viene svolto senza alcun obbligo di tracciabilità ma secondo una assoluta e liberale adesione personale, senza necessità di autorizzazione. È il volontariato che probabilmente raggiunge i luoghi di maggiore sofferenza, i luoghi più bui, in cui si cerca di portare una piccola luce di speranza che possa alleviare la sofferenza.

Basti pensare ai Centri di Accoglienza straordinari che ospitano minori migranti non accompagnati, ovvero ragazzi, in fase adolescenziale, che sono giunti in una nuova terra con tanta fragilità e tanto timore e senza punti di riferimento. Il volontario può contribuire a rendere fattiva l’integrazione e l’inclusione, divenendo punto di riferimento e di supporto.

Ovviamente, non di minore importanza, l’attività di volontariato all’interno degli ospedali e delle RSA, dove degenti hanno bisogno di un sorriso, di una carezza, di una voce di conforto, per sollevarsi da uno stato di malessere imperversante.

In ogni luogo, al di là di quelli citati, può operare un volontario se ha un supplemento d’animo che gli consenta di adoperarsi a favore degli altri, senza termini e condizioni e con spirito di abnegazione.

I nostri giovani, sin dai banchi di scuola, non per senso di romanticismo, dovrebbero essere sensibilizzati verso questo tipo di attività, evidenziando che da talune condotte di natura altruistica ne trae principale giovamento e arricchimento colui che dona rispetto a colui che riceve. Solo così, come affermava l’autorevole Teologo Dietrich Bonhoeffer nell’opera ‘Da forze nuove’, saremo accolti da una ‘Forza buona presente nelle circostanze della vita, abbracciando un mistero buono che attende di essere atteso’.

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Un’agenzia di socializzazione anche nei luoghi della sofferenza non è un concetto romantico

La Comunità Educante assurge, anche, un ruolo fondamentale in luoghi notoriamente di sofferenza, in cui la cura e il supporto devono risultare essenza di trattamento e di applicazione concreta del Diritto allo studio, ex art. 34 della Costituzione. Luoghi in cui può affermarsi, anzi, deve affermarsi tale funzione sono sicuramente gli ospedali e gli istituti di pena, ovvero, spazi in cui la cultura e il legame educativo devono lenire la sofferenza, quest’ultima univoca, a prescindere dalla fonte che la genera. In particolar modo l’art. 27 della Costituzione afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del reo, al fine di garantire il suo rientro nell’intorno sociale con ravvedimento operoso e con rinnovato approccio civico. Nelle plurime discussioni riguardanti la legalità, si mira ad attenzionare la prevenzione e il contrasto come azioni cardine, senza prestare la dovuta cura all’aspetto riabilitativo. Riportare nell’alveo della legalità che ha vissuto parte della propria esistenza nel disorientamento della illegalità risulta essenziale per un riequilibrio sociale che, spesso, viene minato in maniera superficiale e, ancor più gravemente, all’insegna di un pregiudizio che produce disuguaglianza ed emarginazione. Ricordo il principio postulato dal padre del romanticismo francese, Victor Hugo che sapientemente riteneva che «l’apertura di una scuola segnasse la chiusura di una prigionia», ribadendo l’incontrovertibile valore socializzante della cultura e dell’istruzione.

Lo stesso ordinamento penitenziario, ex Legge 26 Luglio 1975, n. 354, ha ripreso pedissequamente il principio enucleato nell’art. 27 della Costituzione, non relegandolo alla mera declamazione verbale, ma, rendendolo attuativo in maniera concreta, annoverando nell’ambito dell’attività trattamentale il ruolo educativo del docente. Ovviamente, la scuola, al di là delle sbarre, non opera in maniera similare alla comunità esterna, in quanto l’azione didattica deve essere pianificata e condivisa in una apposita commissione per garantire la trasversalità delle azione e per garantire i sovraordinati principi di sicurezza.

Personalmente ho vissuto una esperienza ventennale come docente ‘carcerario’, e ho avuto modo di toccare con mano che l’azione sociale può redimere e convertire, donando nuove prospettive di vita ed eliminando ogni opacità di pensiero e convincimento. Negli anni si sono rilevati successi insperati, molti ristretti hanno conseguito titoli di studio, grazie ai quali si sono introdotti in maniera sana nel mercato del lavoro e hanno riportato la loro esistenza in un alveo legalitario che ha oltrepassato l’esperienza dell’errore e del delinquere, acquisendo ruoli sociali rispondenti ai canoni della dignità umana.

Il celebre maestro Manzi affermava, in maniera speranzosa «Non è mai troppo tardi». Fornire speranza significa dare prospettiva e non far primeggiare un fare pusillanime deleterio ed ostativo.

Anche dove la malattia provoca dolore, sofferenza e ansia, la presenza di un docente e della Comunità Educante rassicura e suscita conforto, nell’ambito di una condivisione che, inevitabilmente, risulta curativa non solo per il degente. Avere contatto con la sofferenza fa crescere, rinforza e amplifica la sensibilità nei confronti delle relazioni di prossimità, attualmente, ingredienti di emancipazione civile e umana che, talvolta, cadono in un colpevole disuso. La Comunità Educante va oltre la propria struttura, oltre la propria azione didattica, riconnettendo l’asset culturale a tutti gli ambiti della vita sociale, divenendo vera Agenzia di socializzazione formale, consentendo ai ragazzi non solo di avere una legittima prospettiva di vita, ma, ancor di più di non ignorare il dolore altrui avendo retrospettiva e condivisione con il proprio prossimo, senza volgere lo sguardo dall’altra parte. In questo modo si cresce e si diventa persona leale e proba. Solo così si avvia pragmaticamente un processo di riqualificazione la cui iniziazione avviene nei banchi di scuola e si protrae per tutto l’arco della vita, andando al di là della soglia dell’essenziale e propendendo per la via dell’altruismo. Immanuel Kant affermava: «Il cielo stellato sopra di me…la legge morale dentro di me…», una chiosa autorevole per quanto evidenziato, precisando che un cielo stellato non può escludere nessuno, nella sua avvolgente illuminazione.

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Dispersione e devianza, la doppia “D” sfida per la scuola moderna

Oggi la Scuola è chiamata a svolgere una funzione sociale ben più amplia rispetto alla funzione didattica, in quanto ha il compito di erudire lo studente e formare il cittadino, sedimentando valori etici, morali e civici.

Tale compito, in qualità di agenzia di socializzazione formale, è stato ribadito nella declinazione normativa enucleata nella Legge 107/2015. Infatti, l’Istituzione Scolastica deve porsi al centro del territorio per realizzare sinergie virtuose e proattive con gli Attori Sociali ed Istituzionali, al fine di contribuire all’abbattimento delle zone d’ombra e all’esaltazione dei punti di forza, creando una sana prospettiva per le giovani generazioni.

Per tramutarsi in Comunità Educante, la Scuola deve andare oltre il periodo curriculare e oltre la struttura scolastica. Solo così si intraprende un cammino virtuoso che possa coinvolgere positivamente gli studenti, non solo scolarizzati ma, ancor di più, gli alunni da scolarizzare.

Tale percorso ha pragmaticamente segnato la sua iniziazione all’esito del periodo pandemico, quando il distanziamento costituiva regola coatta per la tutela del bene salute, ex art. 32 della Costituzione. Quando si è rientrati alla sana presenza e si sono stabilite le fisiologiche relazioni di prossimità, gli effetti del distanziamento si sono avvertiti tutti nella loro pienezza. E’ stato necessario sensibilizzare i discenti alle regole della quotidianità, nonostante le resistenze fisiologiche, gli studenti sono stati riaccompagnati in classe, non solo in senso fisico ma con partecipazione attiva. La presenza, ovviamente, sollecita la sana relazione, in condizione di reciprocità, portando alla costruzione e non alla mera trasmissione della conoscenza, tramutando il ruolo del Docente in orientatore e facilitatore, nell’ambito di un peer tu peer, che vede come protagonista assoluto il Discente, che non è solo fruitore dell’informazione.

La Comunità Educante, però, è chiamata a contrastare la dispersione e la devianza, ovvero quei ragazzi che colpevolmente o incolpevolmente si sottraggono all’obbligo scolastico e scelgono, in maniera disorientata, di seguire percorsi impervi ed ai limiti della legalità. Si parla di disorientamento, in quanto molte volte, questi ragazzi ‘ colpevoli di innocenza’ non hanno dei sani punti di riferimento, rimettendosi alla cattiva maestra della strada, in cui vige, in certi comparti nebulosi, una regola, ovvero, ‘ le regole non esistono’. Di guisa, in costanza di una emarginazione civica, tali ragazzi alimentano l’asset microcriminale, propendendo per una crescita insana e deplorevole.

I patti educativi per rafforzare la speranza di una comunità

La Comunità Scolastica deve essere baluardo di legalità e deve raggiungere questi ragazzi per accompagnarli a scuola e sensibilizzarli al bene, riportando luce nella loro esistenza.

Non si può sperare che qualcuno accompagni loro a formalizzare una iscrizione, in quanto tale suggestione risulta improbabile e velleitaria.

Negli ultimi anni il tasso di dispersione scolastica è sensibilmente migliorato per la nobile azione esercitata dalla Scuola, traslando, in Puglia, dal 16 per cento al 12 per cento, sedimentando un incoraggiante margine di speranza.

Tuttavia, quel dato numerico resta molto preoccupante soprattutto per chi ha una sensibilità sociologica e pedagogica, andando al di là dell’effimero dato quantistico e numerico. Dietro quel 12 per cento si annidano disagio, storie di vita spezzate, violenze ed emarginazione, che non possono essere oscurate da un ingannevole approdo interpretativo e valutativo.

Nell’ultimo biennio, sono aumentati notevolmente le denunce e gli interconnessi procedimenti penali per fatti, a rilevanza penale, commessi da giovani autori che, probabilmente, si riconducono nell’alveo di quel dato numerico.

Ecco la ribadita importanza dei Patti Educativi di Comunità, la cui esaltazione è necessaria in considerazione degli effetti sociali interconnessi alla loro realizzazione.

Creare una virtuosa circolarità con il territorio, con i servizi sociali, rappresenta una buona pratica improcrastinabile.

Tutti insieme possiamo abbassare la percentuale della dispersione ma, soprattutto, innalzare l’essenza del valore, ponendola in contrasto e in supremazia rispetto all’opacità del disvalore.

Di guisa, è opportuno abbattere la logica dei Target, meramente numerica, e curare l’agito e le relazioni di prossimità, in quanto attraverso un approccio di prossimità, si ha la possibilità di integrare e includere tutti e ciascuno, senza escludere nessuno, creando una Società accessibile e, soprattutto, traslando il progetto formativo in progetto di vita.

A chiosa di tale riflessione, mi piace rievocare un principio postulato da KierKegaard: «la speranza è la passione del possibile», ovvero apertura a un futuro che non conosciamo e spesso indipendente da noi.

Ma speranza per Eugenio Borgna è anche un dovere verso l’altro, in una dimensione necessariamente di comunione.

Come membri di una sana e virtuosa Comunità abbiamo l’obbligo morale di non lasciar morire la speranza in noi per farla rinascere in colui che non la ha mai nutrita o, addirittura, l’ha vista morire.

Il domani non è ancora iniziato, cominciamo dall’oggi. Tutti insieme si può.

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I patti educativi di comunità per eliminare i gap formativi

L’evoluzione normativa intervenuta nel corso del tempo ha seguito un approccio partecipativo, cooperativo e solidale che coinvolge la società e le strutture normative a “multilivello”. L’impostazione dell’articolo 5 Costituzione tendeva già a valorizzare un contatto tra enti locali (comuni) e cittadini attraverso la sussidiarietà orizzontale nei limiti della unitarietà della Repubblica. L’armonizzazione che è proseguita, con la modifica del Titolo V della Costituzione all’articolo 118, ha favorito l’ottimizzare delle funzioni amministrative, attribuendole ai Comuni sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Importante anche l’art. 3 Costituzione, il principio di uguaglianza che ha una precisa funzione: quella di misurare gli standard legislativi. In particolare, affinché una disciplina valorizzi il principio in questione è necessario che vengano trattare materie uguali in modo uguale e materie diverse con discipline diverse. Da non tralasciare, l’articolo 97 che enuncia i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione e quindi i criteri aziendalistici della efficienza, efficacia ed economicità.

A livello di formazione abbiamo assistito, poi, a interventi che hanno teso ad abbandonare una scuola verticistica a favore di una nuova struttura scolastica fondata sull’autonomia. Si è così giunti ad Dpr 275 del 1999 concernente la “disciplina dell’autonomia scolastica” che tende a riconoscere più autonomia all’insegnamento. Nel nuovo assetto normativo l’art. 25 D. Lgs. 165 del 2001 riconosce la gestione unitaria dell’istituzione al dirigente scolastico che è il legale rappresentante, responsabile della gestione delle risorse finanziarie, strumentali e dei risultati del servizio ed opera nel rispetto delle competenze degli organi collegiali. Il dirigente promuove gli interventi per assicurare la qualità dei processi formativi, la collaborazione delle risorse culturali, professionali, sociali ed economiche del territorio, per l’esercizio della libertà di insegnamento, per l’esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie e per l’attuazione del diritto all’apprendimento da parte degli alunni.

L’autonomia scolastica e la figura dirigenziale, cambiano, oggigiorno, la “vision” e la “mission” dell’istituzione scolastica, che trovano fondamento sugli accordi di rete, dove le istituzioni scolastiche possono promuovere accordi o aderire ad essi per il raggiungimento della proprie finalità istituzionali. Possono avere ad oggetto: attività didattiche, di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di formazione e aggiornamento; di amministrazione e contabilità, fermo restando l’autonomia dei singoli bilanci; di acquisto di beni e servizi, di organizzazione e di altre attività coerenti con le finalità istituzionali; se l’accordo prevede attività didattiche o di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di formazione e aggiornamento, è approvato, oltre che dal consiglio di circolo o di istituto, anche dal collegio dei docenti delle singole scuole interessate per la parte di propria competenza.

Interessante è anche il comma 8 che riconosce alle istituzioni aderenti agli accordi di rete la facoltà di sottoscrivere accordi con enti, associazioni ed agenzie presenti sul territorio. L’art. 8 prevede due parti rilevanti. Il comma 1 disciplina una serie di attività stabilite dal Ministero e al comma 2 promuove l’attuazione dell’autonomia scolastica. Tuttavia, va precisato che l’esercizio dell’attività formative in autonomia non deroga ai principi previsti dalla materia pubblicistica. In particolare, trova applicazione la Legge 241 del 1990 relativa al procedimento amministrativo. Rilevante è, anzitutto, l’art. 1 comma 1 bis che prevede che laddove la P.A. non intenda adottare poteri autoritativi, agisce secondo le norme di diritto privato. Altra disposizione interessante è l’art. 11 della medesima legge che promuove gli accordi nel perseguimento del fine pubblico. Ed infine, la disposizione di cui all’art. 14 che contempla la conferenza dei servizi, ovvero lo strumento attraverso cui le P.A. (istituti scolastici) si incontrano per promuovere attività di natura privatistica (accordi di rette o patti di comunità).

In tale ottica, i Patti educativi di Comunità certamente costituiscono un privilegio per il territorio, in quanto si coinvolgono gli attori presenti in una determinate realtà territoriale, tali da rendere protagonisti tutti gli stakeholder presenti ed a valorizzarne le ontologiche diversità. I Patti sono venuti in auge durante la difficile realtà pandemica che ha saputo tirar fuori le nostre qualità e comprendere che attraverso gli strumenti già esistenti si poteva assicurare, seppur con mille difficoltà, una proposta educativa evoluta. Va riconosciuto che già “La buona scuola” tendeva a disciplinare i Patti. In questo quadro di idee, i patti tendono a fornire soluzioni a problemi gestionali ed organizzativi che mirano ad ogni singola esigenza degli studenti, nonché di coloro che successivamente intendano intraprendere corsi di studio. Si crea così una offerta formativa come un abito su misura per i discenti.

Tuttavia, un Patto per poter assolvere alla sua funzione è necessario che gli attori presenti sul territorio compiano un’attività di ricognizione che tenga conto: a) delle risorse sociali, culturali, civiche ed economiche presenti sul territorio; b) dei bisogni e delle specifiche necessità del territorio sotto il profilo dei diritti degli alunni; c) della partecipazione attiva degli alunni delle famiglie, delle istituzioni private e pubbliche e delle qualità degli spazi pubblici all’interno della comunità educante. Ne deriva che l’obiettivo che si intende perseguire con i Patti educativi è senza dubbio quello di curare le situazioni di fragilità ed eliminare il gap formativo ed educativo imperante sul territorio. Gli attori della formazione sono i protagonisti della co-programmazione e la co-progettazione, che si ispirano al principio di sussidiarietà orizzontale enunciato dall’ultimo comma dell’articolo 118 della Costituzione. Tale percorso, avviato circa vent’anni, è proseguito più recentemente con l’emanazione dell’art. 55 del Codice del Terzo settore e con le Linee Guida sul partenariato sociale emanate dal Ministro del lavoro nel 2021, oltre alle intrinseche linee guida dell’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) e Anci (Associazione nazionale comuni italiani) in materia di rapporti tra P.A. e Terzo settore. La relazione tra enti pubblici e Terzo settore, in tale frangente, sono ispirate al principio di collaborazione, non come nel caso dei soggetti di mercato, interessi diversi e contrapposti, ma un accordo di partenariato per perseguire insieme una finalità condivisa oltre che sui principi di trasparenza, partecipazione, corresponsabilità e sostegno. Con l’istituto della co-progettazione il panorama del partenariato sociale introduce la possibilità di sperimentare forme di partenariato più ravvicinate, secondo un’organizzazione reticolare e più snella, in grado di incrementare la condivisione di responsabilità, nella realizzazione dei servizi di welfare locale, sia in collaborazione con le scuole (come già avviato con il Ministro Bianchi che ha voluto fortemente con l’introduzione dei Patti Educativi di Comunità presupposto che poi ha dato il via alle “nuove collaborazioni”), sia con le amministrazioni locali. Il Terzo Settore, attraverso questo strumento, viene posto davanti ad un’ulteriore sfida, ovvero partecipare alla relazione di partenariato con l’ente pubblico, non come singole organizzazioni, ma costituendo un’aggregazione, una sorta di “pre-partenariato”. Questo comporta, inevitabilmente, la necessità di ripensare le relazioni tra organizzazioni diverse (che si trovano spesso su altri fronti ad essere competitor per l’aggiudicazione di appalti e di gare) arrivando a costituire per l’ente pubblico un interlocutore unico, capace di mettere a sistema tute le competenze presenti e di organizzare compiti e responsabilità di intervento in forma unitaria.

Un ultimo richiamo, che ritengo fondamentale, è il D. Lgs, n. 36 del 2023, il nuovo codice degli appalti che prevede la possibilità per le P.A. di contrattare direttamente con i privati, senza l’adozione della procedura ad evidenza pubblica, per tutti gli acquisti di beni o servizi sotto la soglia comunitaria (art. 14) nei limiti del principio di rotazione (art. 49). La semplificazione delle procedure, credo personalmente, renda più accessibile e realizzabile gli obiettivi e le finalità dei Patti ai fini del miglioramento dell’offerta formativa sul territorio alle studentesse e agli studenti.

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La valenza della formazione e la riqualificazione educativa

Uno strumento di incontrovertibile valenza, per avviare un efficace e proficuo processo di riqualificazione professionale, è sicuramente la formazione, strumento la cui utilizzazione deve essere implementata dal punto di vista qualitativo, per essere impattante e proficua. Ovviamente, l’Istituzione Scolastica deve farsi promotrice per l’affermazione di tale buona prassi, al fine di avviare un processo di valorizzazione di nuove strategie e metodologie didattiche, la cui adozione determina coinvolgimento per i discenti. La formazione del personale docente deve essere strutturata, permanente, strategica e deve essere riconosciuta come opportunità di effettivo sviluppo e crescita professionale, per una rinnovata credibilità sociale.

Un imprinting fondamentale per la crescita professionale è determinato dall’attività formativa, durante l’anno di prova, in cui il neo-docente deve essere accolto e accompagnato da un Docente tutor designato, in base alle sue connotazioni e competenze professionali. In particolar modo l’articolo 33 della Costituzione sancisce che «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Tale statuito prevede, quindi, che il docente assurga al ruolo quale libero professionista per antonomasia.

Principio confermato dall’art. 1 del Dlg.vo 297/94 il quale specifica che l’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni. Quest’ultimi essenza e linfa del lavoro nell’ambito scolastico e ai quali deve essere garantito supporto e orientamento a scuola, oltre la scuola e oltre il tempo scuola. Solo così si concorrerà, in maniera incisiva, alla formazione dello studente e alla costituzione di un profilo professionale e personale consono ai valori giuridici, etici e morali che sovraintendono il regolare svolgimento della vita comunitaria.

Tale funzione, ovviamente, deve essere supportata da una governance efficace, garantendo la sua azione positiva e motivante nei confronti di tutti i soggetti. Pertanto, il dirigente scolastico deve assumere il ruolo di coordinatore relazionale, che sappia leggere e decifrare il contesto in continuo mutamento e sappia palesare una effettiva naturalezza nel gestire le relazioni, ponendo particolare focalizzazione sulle persone e non sui problemi. L’esercizio della libertà d’insegnamento si integra con altri diritti, pure di rango costituzionale, che fanno capo ad altri soggetti discenti e famiglie. A tal proposito è opportuno citare l’art. 34 comma 1 della Costituzione che sancisce il diritto all’apprendimento e il diritto di accedere liberamente al sistema scolastico: ‘La Scuola è aperta a tutti’.

L’articolo 3, comma 2, Costituzione, ovvero il diritto all’uguaglianza dei punti di partenza: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Da tale premessa emerge che la funzione docente si estrinseca nell’ambito del dualismo diritti e doveri, come evidente in ogni testo normativo di riferimento. Tuttavia, la formazione non è un’attività rientrante nel novero dei doveri, altrimenti sarebbe concepita esclusivamente come adempimento di forma e non come spunto di crescita e di sviluppo.

Di tale cambiamento devono intendersi protagonisti tutti i rappresentanti delle varie componenti della Comunità Scolastica. Di guisa, la formazione assume valore fondamentale, attraverso l’individuazione di aree tematiche di rilievo. Solo così la Comunità Scolastica assumerà la vera connotazione di Lean Organization votata al miglioramento continuo, in cui le risorse professionali vengono liberate dalle limitazioni e dai vincoli gerarchici e riunite nel team di processo che diventa, nel rispetto delle indicazioni direttive, autosufficiente e responsabile dello svolgimento delle attività e delle qualità dell’output ottenuto.

Ovviamente un team in cui la conoscenza venga condivisa per generare confronto e competenza. Solo percorrendo tale strada la funzione docente realizzerà il processo di insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni. È il momento di cogliere come opportunità il cambiamento, ovvero come il prodromico presupposto per una riqualificazione strutturale del sistema educativo.

Cogliamo la sfida con l’auspicio di generare buone prassi, mutamenti sistemici e, soprattutto, poniamo le basi per sedimentare un senso di appartenenza dei discenti alla Comunità Educante e al territorio, solo così il tempo scuola sarà vissuto e non trascorso. Tutto ciò può realizzarsi con un supplemento d’anima che tutti gli educatori devono mettere in campo al di là degli impegni declinati dalla norma. Una Scuola che fa scuola e comunità.

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I processi d’integrazione tra i banchi di scuola

Compito della scuola, quale comunità educante e agenzia di socializzazione formale, garantire l’affermazione di tali principi, attraverso l’azione educativo-didattica. Il mio intervento affonda le sue radici nell’esperienza, condotta come docente all’interno dei Ctp prima, Om 455/97 e Cpia dopo Dpr 263/12, nonché all’interno di case circondariali, in cui l’integrazione assume una connotazione di particolare rilevanza. Altresì, con la nascita dei Centri provinciali istruzione adulti si è data la prospettiva di una continuità verticale ai discenti sopraggiunti sul territorio nazionale, che parte dai corsi di alfabetizzazione e giunge ai percorsi di secondo livello.

L’integrazione, nell’ambito di una prospettiva globalizzata, non deve assumere la connotazione di valore aggiunto, bensì di valore connotativo della fisiologica quotidianità scolastica e, di traslato, della vita sociale in genere, considerando tutti i suoi ambiti associati, oltrepassando le barriere del pregiudizio e del discrimine e ritenendo che la multiculturalità dia valore e non disvalore. Attribuire alla precitata l’eccezionalità del valore significherebbe, in maniera percettiva, accentuare una discriminazione che deve essere abbattuta e oltrepassata.

Il nostro paese è stato meta di diversi flussi migratori, negli ultimi decenni, animati quest’ultimi da persone che sono sfuggite dalla loro terra madre per alimentare, altrove, speranze e prospettive, che molto spesso si sono tramutate in tristi realtà. La prima comunità ad accogliere tali persone deve essere la scuola, in quanto solo attraverso la scuola, in quanto istituzione deputata, si può avviare un processo di socializzazione reale ed effettivo. La loro iscrizione a scuola può avvenire in qualsiasi momento dell’anno, come statuito dall’art. 45 del Dpr 394/99 (Regolamento sull’immigrazione), attuativo del Codice dell’immigrazione. Le linee guida sull’accoglienza e sull’integrazione sono declinate dalla nota Miur 4233/2014 e dalla Circolare Miur 2/2010 che prevede che il numero degli alunni stranieri non può superare di norma il 30% del totale degli iscritti, al fine di garantire l’equa ripartizione di tali alunni tra istituti operanti nel medesimo territorio. Il momento dell’accoglienza e del primo inserimento è fondamentale per un corretto processo d’integrazione, e in questa fase assume notevole importanza la relazione con le famiglie degli alunni. Ovviamente discorso diverso riguarda i minori non accompagnati.

L’istituto deve mettere in atto delle procedure per facilitare l’inserimento (accoglienza del singolo alunno e della sua famiglia; sviluppo linguistico in Italiano L2; valorizzazione della dimensione interculturale). In tali fasi assume rilevanza la presenza di mediatori culturali, per le difficoltà comunicative, oltre alla costituzione di una commissione qualificata e multidisciplinare, che garantisca un adeguato ed efficace inserimento del discente nel nuovo contesto scolastico, evitando contraccolpi.

Per valorizzare la dimensione multiculturale e favorire l’integrazione, la Comunità educante, ponendosi al centro del territorio, come statuito dalla legge 107/15 e ancora prima dall’articolo 7 del Dpr 275/99, deve stipulare Accordi di rete con altre istituzioni scolastica, per promuovere la continuità verticale e promuovere la stipula di Patti educativi di comunità, strumenti quest’ultimi innovativi, di promozione della cooperazione a livello territoriale, già riconosciuti dal Ministero dell’istruzione con il Piano estate 2020/2021 e che dovrebbero diventare prassi virtuose. Solo così potrà affermarsi una integrazione completa e trasversale e potrà realizzarsi un progetto formativa di vita, al di là della scuola.

Solo così potranno affermarsi i principi di uguaglianza e di pari opportunità e solo così potrà realizzarsi una emancipazione civile senza precedenti, che vede protagonisti, in collaborazione sinergica, tutti gli attori sociali, all’insegna di un bene trasversale.

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Il patto di alleanza per contrastare le devianze

La Comunità Educante oggi è chiamata, ancor di più, a esercitare adeguatamente una funzione sociale che vada al di là della funzione didattico-educativa. Di guisa, in qualità di Agenzia di Socializzazione formale, deve promuovere la formazione e la cittadinanza attiva dello studente e del futuro cittadino.

Solo così l’Istituzione potrà assurgere al meglio al suo ruolo, creando le basi per l’attivazione di un processo di riqualificazione di cui noi tutti necessitiamo.

I banchi di scuola devono dare slancio ad un cambiamento radicale di cui tutti gli attori sociali e istituzionali debbano sentirsi protagonisti attivi e non comparse.

La Scuola deve promuovere sinergie, alleanze educative e patti di comunità, solo così potrà ambire al raggiungimento di traguardi ambiziosi e di rilevanza sociale, che vanno ben oltre l’erudizione dello studente. In tale direzione, potrà mettere in campo azioni votate al contrasto della dispersione, implicita ed esplicita, della devianza e della microcriminalità.

Nel periodo post-Covid, si è assistito ad un forte implemento di accadimenti lesivi l’ortodossia scolastica e in contrasto con i principi che sovraintendono il regolare svolgimento della vita comunitaria.

Gli effetti pandemici hanno indotto distanziamento e la sana costruzione di relazioni personali positive, quest’ultime strutturabili solo in presenza. Il ritorno nelle aule è stato e lo è ancora oggi complesso e articolato ed ha necessitato di un sopporto di ineludibile importanza, ovvero una azione di scolarizzazione che ha fatto trasparire effetti nevralgici.

Molti ragazzi si sono resi artefici di condotte non positive e sanzionabili nel rispetto dello statuito dei Regolamenti d’Istituto. Studenti che devono essere sensibilizzati al rispetto delle regole, anche attraverso l’applicazione di una sanzione, che abbia efficacia rieducativa ai sensi e per gli effetti dell’articolo 4, accapo 5, del Dpr 249/98.

Pertanto, allontanarli da Scuola rappresenta una soluzione illogica e non consona alla ratio di un processo di crescita che deve essere orientato e supportato.

Ogni ragazzo rappresenta una propria specificità e tale connotazione rappresenta un arricchimento del contesto classe, quest’ultimo da considerarsi, in senso metaforico, come un puzzle la cui composizione sarebbe impossibile ove vi fossero solo pezzi uguali. Ai ragazzi non bisogna dare la stessa cosa, si cadrebbe in una applicazione discriminatoria del principio di uguaglianza, ma a ciascuno si deve dare ciò di cui necessita. È necessario che il docente riesca a solcare la sfera intima, spesso invalicabile, del discente in modo da entrare, attraverso i suoi insegnamenti, nel cuore e nella mente dello studente. Solo così si potranno costruire proficui percorsi orientativi e oltrepassare le barriere del disorientamento.

La Scuola deve essere punto di riferimento forte e imprescindibile e deve promuovere il successo scolastico del discente e l’affermazione di un progetto di vita che sia consono alle sue propensioni.

Al fine di evitare l’insorgenza di danni scolastici e danni pedagogici, neologismi annoverabili nell’innovativa nomenclatura di una Scuola progressista e affermati nell’orientamento ermeneutico di alcune sentenze rientranti nell’alveo della giustizia amministrativa, la Comunità Educante deve promuovere alleanze educative in senso orizzontate con le famiglie e il territorio, in modo da consolidare la trasmigrazione dal progetto formativo al progetto di vita, quest’ultimo di più amplia portata. Contrastare il disagio non significa solo reprimere e sanzionare gli effetti ma significa prestare attenzione alle cause e agire per prevenirle.

Un ragazzo fuori dalla scuola e privo di ogni altro punto di riferimento interiorizzerebbe solo una regola, ovvero che non esistono regole, segnando il passaggio dalla condotta indisciplinata alla consumazioni di atti contra legem.

È utile sottolineare, in tale ottica il ruolo del docente, declinato nell’ambito del giano bifronte dei diritti e dei doveri nel Ccnl, ma dipinto e sancito, in più amplia dimensione nell’articolo 33 della Costituzione. Un Libero professionista, per antonomasia, che deve facilitare, includere, coordinare, orientare, costruire la conoscenza, trasmettere valori e tessere relazioni con famiglie e territorio.

Relazioni, virtuose e non virtuali, che permettono di conoscere l’io più nascosto dei ragazzi, strutturando, per l’effetto, strategie innovative e coinvolgenti, capaci di oltrepassare le zone d’ombra e dare luce ad un percorso di vita che va ben oltre il percorso scolare.

La Comunità Educante deve utilizzare l’errore e l’inciampo, non come il presupposto di allontanamento, ma come premessa della nascita di un bella storia.

L’Europa ci raccomanda, in maniera reiterata, di abbattere l’elevate ed allarmanti percentuali di precoce abbandono scolastico, principio ribadito nell’Agenda 2030 e la Scuola, inevitabilmente, rispetto a ciò deve rispondere presente, andando oltre il limite della competenza Istituzionale, oltre la scuola medesima, oltre il tempo scuola.

Per spingersi oltre, pertanto, deve creare sinergie, stimolare relazioni positive, strutturando un modello educativo forte ed efficace, non ipotizzabile nell’ottica dell’agito individuale. Deve essere volano di cambiamento e, in soverchio ossequio con la legge 107/2015, deve collocarsi al centro del territorio, riconoscendone criticità e punti di forza. L’efficacia della sinergia interistituzionale, in tale dimensione prospettica, deve essere consolidata ed ampliata, in quanto certi valori e principi hanno valenza trasversale ed universale e non possono essere demandati alla singola competenza di alcuni, ma alla trattazione di tutti.

Le giovani generazioni devono essere accompagnati nel consolidamento di uno spirito identitario che possa legarli alla Scuola e al territorio. Il processo, oggi, è ancor più facilitato dalle iniziative co-progettate e realizzate con i fondi Pnrr, i quali devono costituire opportunità strutturale di crescita.

Questa è la strada maestra del cambiamento, questa è la prospettiva di una rivalsa sociale e di una rinascita. Tutti insieme si può….tutti insieme si vince…

Luigi Talienti è dirigente scolastico

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