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Processo Trattativa, l’inchiesta che portò alla sbarra politici e generali

(Adnkronos) - (di Elvira Terranova) - Il primo a parlare di “trattativa” tra Stato e mafia fu l'ex boss di San Giuseppe Jato, il boia di Capaci, Giovanni Brusca. Era il 1996. Quella volta, il pentito di mafia, che oggi è un uomo libero, disse di averne sentito parlare Totò Riina, fra le stragi Falcone…

(Adnkronos) – (di Elvira Terranova) – Il primo a parlare di “trattativa” tra Stato e mafia fu l’ex boss di San Giuseppe Jato, il boia di Capaci, Giovanni Brusca. Era il 1996. Quella volta, il pentito di mafia, che oggi è un uomo libero, disse di averne sentito parlare Totò Riina, fra le stragi Falcone e Borsellino. Nel frattempo arrivarono le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, morto nel 2002. Ciancimino junior dichiarò di aver fatto da tramite tra il padre e il Ros dei Carabinieri per giungere ad un “accordo con lo Stato” per fare cessare la strategia stragista di Cosa nostra e arrivare alla consegna dei latitanti. Parlò di una copertura politica degli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni. Non solo, inoltre Massimo Ciancimino sostenne di avere ricevuto il “papello” con le richieste di Riina dal mafioso Antonino Cinà con l’incarico di consegnarlo al padre, che però scrisse un altro papello che doveva essere sempre indirizzato a Mancino e Rognoni (il cosiddetto “contro-papello”) poiché le richieste di Riina erano, a suo dire, improponibili. 

E’ proprio sulle dichiarazioni di Brusca e di Ciancimino che si basarono i pm di Palermo e Caltanissetta nel 2009, seppure con diversi punti di vista. Una inchiesta che portò a vere e proprie lacerazioni nella magistratura siciliana. La prima udienza ebbe luogo il 29 ottobre 2012, nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, grazie al lavoro dei Pm Antonio Ingroia, che nel frattempo ha lasciato la magistratura, e dei pm Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. In seguito arriverà anche un giovane magistrato, Roberto Tartaglia, che rappresenterà l’accusa. Sul banco degli imputati cinque membri di Cosa Nostra, cioè Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, e cinque rappresentanti delle istituzioni, cioè il generale Antonio Subranni, il generale Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello dell’Utri, per il reato di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario.  

Massimo Ciancimino è invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino per falsa testimonianza. La posizione dell’ex ministro Calogero Mannino viene invece stralciata. E l’ex politico verrà assolto sia in primo che in secondo grado. Il decreto di rinvio a giudizio fu firmato dall’attuale Presidente del Tribunale di Palermo, allora gip, Piergiorgio Morosini.  

Nell’inchiesta finirono anche 4 intercettazioni di telefonate tra Mancino e il Presidente Napolitano, poi distrutte per decisione della Corte Costituzionale. Vennero intercettate varie telefonate tra Loris D’Ambrosio, l’allora consigliere giuridico del presidente Napolitano, e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, telefonate che hanno portato il conflitto istituzionale tra il Quirinale e la Procura di Palermo. 

Nel corso del processo venne anche ascoltato l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La Corte d’Assise di Palermo si trasferì quel giorno al Quirinale. Era il 28 ottobre 2014. La sentenza di primo grado verrà emessa il 20 aprile del 2018. Condannati a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Per il cognato dei capo dei capi, dunque, una pena superiore rispetto ai sedici anni chiesti dai pm Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, che invece per Mori volevano una condanna pari a 15 anni. Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci. 

Il 29 aprile del 2019 prende il via il processo d’appello, presieduto da Angelo Pellino. “E’ stato detto che non si può riscrivere la storia del paese guardandolo dal buco della serratura. Al di là della metafora non felicissima, credo sia una verità condivisibile, quasi banale, se con questo si vuole significare che la complessità dei fatti storici non può essere compressa nella gabbia del paradigma giudiziario nel quale è giusto che si muova”, disse nella relazione introduttiva.  

“Ma, dato l’oggetto dei fatti molto eclatanti, riscrivere la storia del Paese è quasi inevitabile, i tempi, i momenti trattati ed il lavoro delle parti che hanno cercato si scavare in vicende gravi. Se e quando ciò dovesse capitare sicuramente non è cercato e voluto. L’unico scopo perseguibile in primo grado è la fondatezza dell’ipotesi accusatoria; per il secondo grado, è la verifica dei motivi di appello. Tutti gli imputati non sono archetipi socio-criminologici. Sono uomini in carne e ossa che saranno giudicati per ciò che hanno o non hanno fatto: spero che ci sia un serrato confronto sulle questioni tecnico giuridiche e sull’accertamento probatorio”. La sentenza di appello arriva il 23 settembre 2021. Una sentenza che non conferma quella di primo grado. Verranno assolti, infatti, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, “per non aver commesso il fatto”, ma anche gli ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno, “perché il fatto non costituisce reato”. Ridotta la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella, confermata invece la condanna per il medico Antonino Cinà.  

Una vicenda che, dopo tanti anni e diverse sentenza, è però ancora carica di misteri, che chiama in causa non soltanto gli imputati del processo, ma anche altri rappresentanti delle istituzioni. Nella sentenza di primo grado i giudici scrivono che il dialogo segreto avviato dai carabinieri del Ros, Mori e De Donno, con l’ex sindaco mafioso Ciancimino “può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino”.  

E che dopo la strage Falcone, Riina volle subito approfittare del “segnale di debolezza proveniente dallo Stato”. Mentre in appello i giudici definire quella iniziativa del Ros “improvvida”, con un “grave errore di calcolo” che si rivelò “sciagurato” e che fu “intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti l’ufficio e i compiti istituzionali”. Ma gli ufficiali dei carabinieri, che nell’estate del 1992 presero contatti con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, “furono mossi da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutelare un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”, cioè “far cessare le stragi”, “fermare l’escalatione di violenza mafiosa”.  

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