(Adnkronos) – Narges Mohammadi, vincitrice del premio Nobel per la pace 2023, è uno dei simboli della lotta per i diritti umani e delle donne in Iran. Una battaglia che è costata quasi tutto a questa attivista detenuta del famigerato carcere di Evin, a Teheran, dove sta scontando una pena a 31 anni di carcere. Non a caso il Comitato per il Nobel, che le ha assegnato quello per la Pace, nelle motivazioni ha evidenziato “il tremendo costo personale” che sta pagando la 51enne, che ha passato rinchiusa in prigione gran parte degli ultimi 20 anni.
Mohammadi è stata arrestata 13 volte e condannata cinque per essere la voce di chi voce non ne ha mai avuta, per la sua incessante campagna contro la pena di morte, la tortura e l’isolamento in carcere, pratica quest’ultima oggetto della sua ultima battaglia. L’anno scorso ha pubblicato il libro ‘White Torture’ in cui racconta gli oltre due mesi in isolamento nella sezione 209 di Evin.
“Lo scopo della tortura bianca è quello di interrompere permanentemente la connessione tra il corpo e la mente di una persona per costringere l’individuo ad abiurare dalla propria etica e dalle proprie azioni”, scrive. Mohammadi realizzò la prefazione del libro durante una breve licenza dal carcere per motivi medici l’anno scorso.
Attualmente sta scontando una pena a 10 anni e 9 mesi per atti contro la sicurezza nazionale e propaganda contro lo Stato. È stata anche condannata a 154 frustate, una punizione che secondo i gruppi per i diritti umani non le sarebbe ancora stata inflitta.
Ma nemmeno le celle più buie di Evin sono riuscite a soffocare la sua voce come pure quella di un’altra nota attivista, Nasrin Sotoudeh. Poche settimane fa, nell’anniversario della morte di Mahsa Amini, la giovane arrestata per violazione del codice di abbigliamento e morta sotto la custodia della polizia morale iraniana, Mohammadi ha organizzato una protesta dall’interno del carcere. Lei e altre tre donne hanno bruciato i loro veli.
In una registrazione audio dall’interno di Evin, condivisa con la Cnn, si sente Mohammadi scandire “donna, vita, libertà” – lo slogan della rivolta scatenata l’anno scorso dalla morte di Mahsa. Poi la registrazione viene interrotta da un breve messaggio automatico – “Questa è una telefonata dalla prigione di Evin” – mentre si sentono le donne cantare la versione in farsi di Bella Ciao.
La battaglia delle iraniane per il velo è tornata prepotentemente all’attenzione negli ultimi giorni per il caso di un’altra giovane che non avrebbe rispettato l’imposizione, quello della 16enne Armita Geravand, finita in coma in circostanze ancora da chiarire nella metropolitana di Teheran. Secondo gruppi di attivisti, sarebbe stata la polizia morale (Gasht-e Ershad) a ridurla in un letto d’ospedale spingendola e facendole battere la testa addosso a un palo. I familiari non avrebbero la possibilità di farle visita.
Attivista sin dai tempi in cui studiava all’università e aveva fondato il gruppo degli ‘Studenti illuminati’, Mohammadi, nei commenti ricevuti dalla Cnn, ha affermato che il comportamento del governo ha ancora una volta “sollevato le nostre preoccupazioni” ed è “indicativo dei suoi sforzi per impedire che la verità su Armita Geravand venga alla luce”.
In un’altra recente lettera Mohammadi si scagliava invece contro l’hijab obbligatorio, denunciando quella che secondo lei è l’ipocrisia di uno Stato religioso che usa la violenza sessuale contro le donne detenute. Violenza a cui è stata ripetutamente sottoposta anche l’attivista.