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Kennedy, 60 anni fa l’assassinio: il 65% degli americani crede al complotto

(Adnkronos) - A 60 anni dalla morte di John F. Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, un'ampia maggioranza di americani continua a credere che l'assassinio del presidente che traumatizzò e spezzò il cuore all'America fu il frutto di un complotto. E' quanto emerge dal sondaggio pubblicato da Gallup, in occasione dell'anniversario, secondo il…

(Adnkronos) – A 60 anni dalla morte di John F. Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, un’ampia maggioranza di americani continua a credere che l’assassinio del presidente che traumatizzò e spezzò il cuore all’America fu il frutto di un complotto. E’ quanto emerge dal sondaggio pubblicato da Gallup, in occasione dell’anniversario, secondo il quale il 65% degli americani crede che Lee Harvey Oswald, che sparò da una finestra al sesto piano del Texas School Book Depository al passaggio dell’auto di Kennedy nella Dealey Plaza della città texana, non agì da solo, ma di concerto con altri.  

Solo il 29% crede che Oswald (che a sua volta fu ucciso in diretta televisiva due giorni dopo, mentre veniva trasferito dal quartier generale della polizia di Dallas, da Jack Ruby, proprietario di un nightclub), è da considerarsi l’unico responsabile dell’assassinio di Jfk, come si afferma nelle controverse conclusioni raggiunte, nel settembre del 1964, dalla commissione Warren, con il sostegno delle indagini della polizia di Dallas, dell’Fbi e del Secret Service. 

L’autorevole istituto demoscopico sottolinea come lo scetticismo degli americani nei confronti della versione ufficiale dell’assassinio politico più famoso della storia recente non è una novità, ed ha registrato una percentuale anche maggiore negli anni che vanno dal 1976 al 2003. Uno scetticismo che in questi decenni è stato alimentato da un flusso costante di nuovi elementi, filmati, testimonianze che in qualche modo contraddicono la storia ufficiale.  

Ultimo dei quali “JFK: What the Doctors Saw”, documentario mandato in onda in questi giorni da Paramount su “quello che videro i dottori” del Parkland Memorial Hospital, dove il presidente fu portato dopo essere stato colpito alla testa mentre, dalla limousine scoperta con la moglie Jackie al fianco, salutava la folla, come mostra il filmato ormai diventato memoria storica collettiva. Il documentario è stato realizzato da Jacque Leuth che nel 2013 riunì i sette dottori che prestarono i soccorsi al presidente prima di dichiararne la morte, tra i qual Robert McClelland, che allora era assistente professore di chirurgia. “Con tutta probabilità c’e’ stato un complotto, c’era più di uno sparatore”, afferma nel documentario McClelland, che è morto nel 2019. 

“La domanda in retrospettiva è che se Oswald era al sesto piano del deposito come ha potuto sparare da davanti? Allora c’era più di un aggressore?”, gli fa eco Ronald Jones, anche lui all’epoca nel team del Parkland, citando il fatto che da l’ingresso del proiettile nel cranio del presidente appariva come frontale.”Come può un proiettile sparato da dietro sollevare il cuoio capelluto della fronte?”, è un’altra domanda posta da Joe Goldstrich, che era allora all’ospedale come studente al quarto anno di medicina.  

Ma l’elemento più inquietante del documentario è forse il fatto che i medici intervistati esaminando le foto dell’autopsia di Kennedy, concludono che le immagini appaiono differenti da quello che hanno visto al pronto soccorso del Parkland. “Quando ho visto le immagini dell’autopsia, ho pensato che qualcuno avesse manomesso l’intera cosa e la questo mi ha molto insospettito”, ha affermato Kenneth Salyer, allora al primo anno di incarico all’ospedale di Dallas.  

La commissione Warren ha concluso che Oswald sparò con un fucile Mannlicher-Carcano, un proiettile mancò il bersaglio e colpì un segnale stradale, il secondo colpì Kennedy vicino alla base posteriore del collo. La commissione concluse che lo stesso proiettile, che fu chiamato il ‘magic bullet’, poi colpì anche il governatore del Texas, John Connally, che era seduto di fronte al presidente, ferendolo in più parti del corpo. Un terzo proiettile colpì il presidente alla testa. 

Insomma la domanda è sempre la stessa, chi ha veramente ucciso Jfk, “Who killed Jkf?”, come si intitola il podcast, la cui ultima puntata andrà in onda proprio domani giorno dell’anniversario, con cui Rob Reiner afferma di presentare nuovi elementi per arrivare alla verità. “Avevo 16 anni quando è successo e nessuno dimenticherà mai dov’era nel momento in cui sentì la notizia, è stato un trauma nazionale”, ha detto in una recente intervista alla Cnn il regista di Stand by me.  

Reiner ricorda come anche seguì “dal vivo in tv quando fu ucciso il sospetto assassino del presidente” Oswald, e già allora pensò che la cosa fosse “bizzarra”. “In questi 60 anni abbiamo avuto rivelazioni, dopo rivelazioni” che contraddicevano la versione ufficiale, per questo il regista afferma di aver deciso di mettere insieme tutte queste teorie in modo “complessivo” per determinare “quello che veramente successe quel giorno”. E senza fare “spoiler” del suo postcad Reiner nell’intervista anticipa che la sua ricerca ha portato a determinare ‘nomi e posizioni” che avrebbero avuto gli altri cecchini che avrebbero partecipato all’assassinio di Kennedy. 

Ma ad aiutare a ricostruire le ultime ore di vita di Jfk ora c’è anche il libro, pubblicato qualche mese fa da Paul Landis, 88enne ex agente del Secret Service che è uno degli ultimi testimoni diretti ancora in vita di quel 22 novembre di 60 anni fa. E che in “The Final Witness” racconta come fu lui a stare al fianco della first lady, con l’abito macchiato dal sangue del marito, mentre padre Oscar Huber amministrava l’estrema unzione al primo presidente cattolico della storia americana, pronunciando parole in latino che apparvero un rito misterioso al 28enne presbiteriano dell’Ohio. 

Landis era un agente assegnato alla protezione della first lady, e con questo ruolo era andato a Dallas, dove Jackie Kennedy aveva deciso di accompagnare il marito in una tappa elettorale. Era la prima volta che il giovane agente partecipava a un corteo presidenziale, e pochi momenti prima della sparatoria era intento a controllare la folla entusiasta che salutava il passaggio della limousine del presidente che a un certo punto “fece fermare la limo e iniziò a stringere le mani a bambini e adulti, tutti gli agenti uscirono dalla macchina al seguito mettendosi a protezione della limo”. 

Arrivati a Dealey Plaza, Landis sente un rumore che riconosce subito: “Sono stato tra le armi tutta la mia vita, per sport e come agente, e riconosco un colpo di fucile, non erano fuochi d’artificio”. E nello stesso istante vede il presidente che si accascia sulla moglie, e poi altri due colpi. 

“Ho visto un bagliore bianco, mentre la parte destra del presidente scoppiava, e si spargeva sangue, carne e materia cerebrale”, scrive nel suo libro, raccontando che, insieme ad un altro agente, andò sul sedile posteriore, dove sembrava che fosse esplosa una bomba, dirigendosi verso la first lady. “Lasci che l’aiuti, signora Kennedy”, ricorda di aver detto alla first lady che rispose: “no, voglio rimanere con lui”, continuando a stringere il corpo del marito. 

Landis scrive anche di aver notato due frammenti di proiettile in una pozza di sangue accanto a Jackie e poi un proiettile intatto in cima al sedile posteriore, dietro a dove era seduto il presidente quando i colpi finali lo fecero cadere indietro e sulla sinistra. Quando la limousine presidenziale arrivò in ospedale e fu lasciata praticamente incontrollata, Landis ricorda di aver preso lui stesso il proiettile e di averlo portato nell’ospedale.  

E proprio l’affermazione dell’esistenza di questo proiettile intatto – sottolinea oggi il Washington Post che dedica un lungo articolo al libro di Landis – è destinata a “gettare nuovi dubbi sulla narrativa ufficiale dell’assassinio di Kennedy”. 

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