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Iran, Europa solidale con le donne ma gli stilisti sul velo ci guadagnano

(Adnkronos) - Mentre attrici e cantanti francesi si mobilitano per la morte in Iran di Mahsa Amini, tagliandosi una ciocca di capelli, il fenomeno della modest fashion, la moda rispettosa dei precetti dell'Islam, non è più un tabù: un tempo era un fenomeno di nicchia poi è diventato quasi mainstream, persino cool, ed ha coinvolto…

(Adnkronos) – Mentre attrici e cantanti francesi si mobilitano per la morte in Iran di Mahsa Amini, tagliandosi una ciocca di capelli, il fenomeno della modest fashion, la moda rispettosa dei precetti dell’Islam, non è più un tabù: un tempo era un fenomeno di nicchia poi è diventato quasi mainstream, persino cool, ed ha coinvolto e coinvolge maison e marchi di spicco. La materia, per un settore così ‘occidentale’, può essere fonte di imbarazzo, viste le diversa sensibilità sull’uso che le donne possono fare del loro corpo, su come possono mostrarlo o devono nasconderlo, anche prima dei drammatici fatti iraniani, ma c’è un gran buon motivo per non tirarsi indietro: il settore, in forte crescita, nell’anno in corso ha un valore stimato di 313 miliardi di dollari.  

Negli anni passati gli stilisti hanno portato in auge veli, turbanti, foulard e cappucci che coprono interamente il volto. Niente di nuovo, sia chiaro. Se è vero che il foulard, l’accessorio più chic di Hollywood, da diverse stagioni è entrato nel mirino di stilisti e couturier, è innegabile che la moda abbia sempre giocato a coprire e scoprire teste, annodando e slacciando attorno al collo uno dei simboli religiosi più cari a musulmane e cristiane. In passerella, nelle ultime stagioni, passamontagna, cappucci, veli e foulard sono tornati a fare il buono e il cattivo tempo, come da Versace, Dior o Balenciaga, mentre Kim Kardashian si è fatta fotografare al Met Gala ‘foderata’ interamente di nero (testa inclusa). 

Da anni headwrap, hijab (il tradizionale velo islamico) e abaya (la sopravveste tradizionale islamica, lunga fino ai piedi) vengono rivisitati dai grandi brand, marchi sportswear o designer indipendenti. Un’impresa affatto facile quella di coniugare moda e religione ma che resta un pilastro per il mercato del lusso, alimentato soprattutto dai clienti dei Paesi arabi. In molti lo hanno capito da tempo, anche se negli ultimi anni questo fenomeno sembra essersi indebolito per quanto riguarda i big del lusso. La prima a lanciare una ‘Ramadan Collection’ è stata Donna Karan nel 2014, con la sua linea Dkny, realizzando una capsule rispettosa dei precetti islamici, che ha spalancato le porte del fashion a collezioni create ad hoc per il mercato arabo. Come lei anche Tommy Hilfiger e il gigante Uniqlo, che ha collaborato a quattro mani con la stilista e blogger musulmana Hana Tajima o il sito di e-commerce Net-A-Porter che aveva dedicato spazio a una selezione ‘speciale Ramadan’. 

E’ stata di Nike, invece, l’idea di realizzare burkini e hijab con tessuti tecnici mentre H&M nel 2015 ha lanciato una campagna per promuovere il riciclo dei vestiti nei negozi del colosso svedese, diventata subito virale in rete perché lo spot inquadrava una modella con indosso l’hijab, il tradizionale velo islamico. Da allora se ne è fatta di strada per sdoganare la ‘modest fashion’. Il colosso statunitense Macy’s è stato il primo department store americano a introdurre una ‘modest clothing collection’ disegnata per clienti islamici. Nel 2017 Dolce&Gabbana ha invece realizzato una serie di hijab e abaya di lusso pensati per le donne musulmane. In passerella, negli anni, si è visto di tutto: dal caro vecchio foulard amatissimo da Grace Kelly e dalla regina Elisabetta al turbante, fino ai balaclava by Gucci o ai cappucci firmati Balenciaga. 

A spianare la strada alla tendenza è stato anche un manipolo di modelle che in pedana ha sfoggiato negli anni il velo con fierezza. E’ il caso della top somala Halima Aden, ex volto delle passerelle internazionali, che nel 2017 ha debuttato da Alberta Ferretti e Max Mara con la testa coperta dall’hijab. Musulmana osservante, Halima ha sfilato e posato senza mai togliere il velo dalla testa ma dopo il lockdown, a soli tre anni dal debutto mondiale, ha detto addio alla moda per motivi religiosi, affermando che il lavoro da mannequin era in conflitto con la sua fede. 

I fashion designer hanno tentato di ipotecare un settore che ha mutato, e sta mutando i contorni del fashion business. A parlare, d’altronde, sono i numeri: secondo lo ‘State of the Global Islamic Economy Report’, si stima che il mercato della modest fashion, un tempo settore di nicchia, abbia raggiunto i 295 miliardi di dollari nel 2021 mentre per l’intero 2022 la stima è di 313 miliardi di dollari con un +6% e nel 2025 il suo valore dovrebbe raggiungere i 375 miliardi. Cifre da capogiro per i mercati più grandi per la modest fashion, ovvero Iran, Turchia e Arabia Saudita. 

I big della moda non si sbilanciano (oggi sono pochi i marchi di lusso che vendono ‘hijab’, copricapo’ o veli) ma è chiaro che la modest fashion continua a inglobare una larga fetta di consumatori che le maison occidentali non possono certo ignorare. Lo dimostrano le ‘modest fashion week’, le settimane della moda che si svolgono ogni anno in giro per il mondo, a Dubai, Jakarta ma anche nelle multiculturali e cosmopolite Amsterdam e Londra. A fare leva sulla modest fashion ci sono anche i social: solo su Instagram sono 4,7 milioni i post con l’hashtag #modestfashion e #modestfashionblogger (585mila post) mentre tra le influencer star della moda ‘modesta’ spiccano Dina Tokio (1,2 milioni di follower) Fatma Hudsam (681mila follower), e Leen Al Ghouti (oltre 300mila seguaci).  

Crescono anche le piattaforme specializzate in modest fashion: da Aab, il marchio di abbigliamento di moda islamica fondata nel 2007 come etichetta londinese e oggi riconosciuto come marchio premium, al turco Modanisa, che offre una vasta gamma di abbigliamento pret-a-porter, fino a Louella, brand fondato dalla medaglia olimpica di scherma Ibtihaj Muhammad, prima atleta americana a vincere una medaglia olimpica in hijab. Tra gli artisti e designer che di recente hanno dedicato spazio alla moda islamica c’è poi Ghali, il rapper di origini tunisine, che l’anno scorso ha creato una capsule per Benetton, circa 45 pezzi, in un clash di culture, dall’hijab alle felpe, alle tute con il nome del rapper scritto in arabo. “L’hijab è un pezzo unico che ho voluto molto – ha detto Ghali – non c’è stata resistenza da parte dell’azienda per inserirlo nella collezione”.  

Ha parlato di “una collezione sotto il segno dell’inclusività” e di un “tributo alla cultura e alle donne mediorientali” anche lo stilista Antonio Grimaldi, che a inizio anno ha fatto sfilare in passerella la top model di origine somala Ikram Abdi Omar con il capo coperto dall’hijab. Ma i Millennial musulmani, denominati anche ‘Generazione M’, i giovani che seguono i dettami della religione islamica, chiedono di più ai brand. Se un marchio non si allinea ai loro valori, acquistano altrove. Lo sa bene la designer Nadia Hadhrami, 23 anni, di Rotterdam, che la settimana scorsa ha presentato la sua prima collezione durante la fashion week di York dicendosi consapevole delle difficoltà che le donne musulmane affrontano ogni giorno nell’acquistare abiti di modest fashion nelle principali vie del lusso. “Mi sono ispirata alle donne musulmane, che vogliono abiti eleganti ma semplici – ha raccontato la giovane designer – senza però compromettere la propria fede”. (di Federica Mochi) 

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