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Giorgio Napolitano, da Prodi a Renzi: 5 premier in 9 anni tra spread, larghe intese e riforme

(Adnkronos) - Da Romano Prodi a Matteo Renzi, passando per il Berlusconi IV, l’Esecutivo tecnico del bocconiano Mario Monti e quello di Enrico Letta. In un periodo tra i più difficili della seconda Repubblica, tra scontro politico, crisi economico-finanziaria e feroci attacchi speculativi, Giorgio Napolitano - morto oggi all'età di 98 anni - da Capo…

(Adnkronos) – Da Romano Prodi a Matteo Renzi, passando per il Berlusconi IV, l’Esecutivo tecnico del bocconiano Mario Monti e quello di Enrico Letta. In un periodo tra i più difficili della seconda Repubblica, tra scontro politico, crisi economico-finanziaria e feroci attacchi speculativi, Giorgio Napolitano – morto oggi all’età di 98 anni – da Capo dello Stato, ha nominato cinque presidenti del Consiglio. Nel febbraio 2007 Napolitano deve gestire la prima crisi di governo da quando è salito al Colle: il premier Romano Prodi si è dimesso, dopo il voto contrario del Senato alla relazione sulla politica estera del suo governo. Dopo tre giorni Napolitano rinvia il governo alle Camere per la fiducia, che ottiene.  

Ma l’anno successivo Napolitano si trova a fare i conti con la crisi che questa volta affonda l’Esecutivo guidato dal ‘Professore’. Lo scontro tra i due schieramenti non conosce tregua e a gennaio il Senato, dove a causa del Porcellum la maggioranza si regge su un pugno di voti, nega la fiducia al Governo e Prodi rassegna le dimissioni. Strada obbligata, lo scioglimento delle Camere e il voto. Il testimone torna così nelle mani di Silvio Berlusconi, che ‘dilapida’ in poco tempo la maggioranza schiacciante uscita dalle urne. Ma è la crisi finanziaria che viene dagli States a segnare l’ultimo giro di giostra a Palazzo Chigi per il Cavaliere.  

La situazione economica si deteriora progressivamente e sulla scena politico-economica irrompe una parola fino ad allora quasi sconosciuta all’opinione pubblica: lo spread, il differenziale tra titoli di Stato italiani e bund tedeschi, il termometro della tenuta economica. Nell’estate del 2011 la Bce impone al Governo italiano una cura da cavallo per arginare la crisi e nell’autunno del 2011 si profila il rischio di un declassamento.  

A fine ottobre Francia e Germania lanciano l’ultimatum a Berlusconi sulle misure per debito e crescita. E subito fa il giro del mondo il video in cui Angela Merkel e Nicolas Sarkozy da Bruxelles rispondono alle domande dei giornalisti al termine di una riunione del Consiglio Ue. Ai due leader viene chiesto se hanno fiducia nel premier italiano. Merkel, in evidente imbarazzo, fa timidamente cenno di sì, ma poi incrocia lo sguardo eloquente di Sarkozy e sul volto di entrambi appare un sorriso ironico.  

Il destino del Governo Berlusconi è irrimediabilmente segnato. Il 9 novembre Napolitano nomina senatore a vita Mario Monti. È il prologo al Governo tecnico con il centrodestra grida al complotto contro il Cavaliere.  

Il 12 novembre, dopo una giornata tesissima, Berlusconi getta la spugna e allo Studio alla Vetrata, al Quirinale, è seduto davanti a Napolitano mentre firma le dimissioni. Nasce il Governo Monti, con i partiti che fanno un passo indietro e mettono da parte la conflittualità. La ‘strana maggioranza’ e ‘Super Mario’ si prendono carico di una mission (quasi) impossible: traghettare l’Italia fuori dalla palude della crisi e restituire al Paese la perduta credibilità internazionale. E non possono essere che lacrime e sangue, a cominciare dalla contestatissima legge Fornero sulle pensioni. 

 

Ma anche la candela del Governo tecnico si scioglie rapidamente al fuoco della crisi. Il 6 dicembre 2012 il Pdl lascia la maggioranza e si astiene, al Senato, sul voto al decreto Sviluppo e alla Camera sul provvedimento che riguarda le spese di Regioni ed Enti locali. Monti, dopo un colloquio con Napolitano, annuncia che, una volta approvata la legge di Stabilità, si dimetterà (l’ultimo atto il 21 dicembre).  

Il 22 dicembre, dopo le consultazioni con le forze politiche Napolitano firma il decreto di scioglimento delle Camere: si voterà il 24 e 25 febbraio 2013. La coalizione di centrosinistra, ‘Italia bene comune’ ottiene la maggioranza dei seggi alla Camera, mentre a Palazzo Madama la ‘maledizione del Porcellum’ impedisce tanto al centrosinistra quanto al centrodestra di raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi.  

Sulla scena politica irrompe il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo che raccoglie il 25% dei voti: è il ‘boom’ che Napolitano aveva ironicamente liquidato dopo il risultato dei grillini alle regionali in Sicilia: “di boom ricordo solo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo…”. Grillo però respinge l’offerta di collaborazione del Pd. Per Bersani è una vittoria elettorale a metà che gli sbarrerà le porte di Palazzo Chigi.  

Intanto le forze politiche si impantanano sull’elezione del nuovo inquilino del Colle. Romano Prodi cade sotto il fuoco amico di 101 cecchini: tra le vittime, anche Bersani che lascia la guida del Pd. Il pressing sul Capo dello Stato uscente si fa intenso e alla fine Napolitano accetta “per senso di responsabilità” il secondo mandato.  

 

Subito dopo, a fine aprile 2013, il flop di Bersani genera il Governo di Enrico Letta e la nascita delle larghe intese: “le forze rappresentate in Parlamento devono, senza alcuna eccezione, dare ora il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del Paese. Non si può non prender atto dei risultati elettorali, piacciano oppure no, e non c’è partito o coalizione che abbia avuto voti a sufficienza per governare con le sue sole forze”.  

”È tassativa la necessità di intese tra forze diverse”, dice il Capo dello Stato nel discorso di insediamento-bis, ponendo una precisa condizione: si facciano finalmente le riforme, altrimenti al rieletto Capo dello Stato non resterà che “trarre le dovute conseguenze”. È il governo del tutti dentro, che però viene azzoppato quando il Senato vota la decadenza di Berlusconi. Forza Italia si sfila e l’esecutivo Letta rallenta la sua corsa.  

Il nuovo segretario dei Dem è Guglielmo Epifani, ma la sua sarà solo una ‘reggenza’ per la transizione. A dicembre, le primarie del Pd incoronano segretario Matteo Renzi, che inizia la sua marcia inarrestabile verso Palazzo Chigi. Nella Direzione di metà febbraio 2014 l’ex sindaco di Firenze manda a casa il premier Pd: “Non è un derby”, non è una sfida “caratteriale” tra lui e Letta, dice.  

“È un bivio e io vi propongo di percorrere la strada meno battuta”, perché serve un “cambiamento radicale”. L’hashtag ‘Enricostaisereno’ di appena un mese prima suona beffardo. Al volante ora c’è Matteo il ‘rottamatore’, al quale Napolitano affida l’incarico di formare il Governo.  

Ancora una volta nel nome delle riforme e della ripresa economica. Non mancano tuttavia tensioni, quando il Capo dello Stato dice no alla proposta di nominare ministro della Giustizia, Nicola Gratteri.  

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