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L’alta sartoria che ha fatto scacco matto al re

Entrando nella sartoria di Valentino Ricci, in una traversa della principale via dello shopping bitontino, è impossibile non rimanere ammaliati dall’eleganza quasi aristocratica dei suoi abiti; un’eleganza, cioè, non meramente formale, vuota, fine a se stessa, ma fatta d’una bellezza “giusta”, appropriata, capace com’è di esprimere un valore non soltanto epidermico ed estetico, ma sostanziale,…

Entrando nella sartoria di Valentino Ricci, in una traversa della principale via dello shopping bitontino, è impossibile non rimanere ammaliati dall’eleganza quasi aristocratica dei suoi abiti; un’eleganza, cioè, non meramente formale, vuota, fine a se stessa, ma fatta d’una bellezza “giusta”, appropriata, capace com’è di esprimere un valore non soltanto epidermico ed estetico, ma sostanziale, “reale”. Sarà per questo che sulla sommità dei busti su cui rifulgono le giacche “Sciamāt” – da anni ormai tra i brand sartoriali più rinomati a livello internazionale – è posta una corona. Perché, spiega Ricci, «vestire bene non è un fatto che attiene allo sfoggio, all’esibizione, ma è questione ben più intima, silenziosa. È un fatto di corrispondenze tra il dentro e il fuori, di ciò che è opportuno in quanto valorizzante, capace di dare dignità e valore a quello che siamo, in ciascun momento». L’idea è che al centro ci sia chi indossa e non chi crea, come spesso avviene quando l’artista-artigiano si sente l’unico sovrano dei desideri altrui. Perché Sciamāt viene dal persiano “Shāh Māt” e significa, appunto, “il re (è) morto”, o anche “scatto matto” (la frase è legata alla leggenda cui si fa risalire la nascita degli scacchi). «Il vero re non è il sarto ma chi veste l’abito». Questa è la filosofia di Ricci, che dopo aver cominciato la sua vita lavorativa nei panni d’avvocato, nel 2002 ha deciso che l’amore per la sartoria non poteva rimanere una semplice passione ma che doveva diventare un’attività a tempo pieno, capace di produrre, a regime, con 11 collaboratori in organico, 500 abiti all’anno, tutti fatti a mano nel laboratorio di Bitonto e commercializzati nello showroom di Milano e in pret-a–porter nelle boutique più esclusive del mondo.

Come è cominciata?
«Con alcuni tight di mio nonno. Volevo adattarli al mio corpo e mi sono rivolto ad una sartoria, qui a Bitonto. Avevo 16 anni. C’era una piccola radio ad onde medie che passava pezzi di lirica e radiogiornali. I ferri da stiro erano ancora a carbone. Mi innamorai immediatamente di quel luogo; piuttosto che bighellonare in giro mi piaceva stare lì dentro, in compagnia di uomini d’altri tempi».
La sartoria come luogo, dunque, più che l’idea del confezionamento del capo.
«Sì, è stata una fascinazione soprattutto sensoriale. Mi piacevano gli odori, i colori, le sensazioni che mi lasciava. Osservavo la gente che entrava e i capi che indossavano, imparando i nomi dei tessuti e delle fantasie, dal ‘pied de poule’ al ‘Principe di Galles’. Cominciai allora a far realizzare vestiti per me, che dovevano essere come quelli dell’avvocato Agnelli, mio modello dell’epoca. Presto cominciai a percepire quelli che ne ritenevo possibili difetti, a guardarli più sterilmente e a pensare alle possibili modifiche. Il mio occhio sartoriale nasce lì».
Com’è cambiato nel frattempo il gusto maschile?
«Il protagonista del mondo contemporaneo è molto diverso da quello della mia gioventù e da quello che ho cominciato a vestire dieci anni fa, quando Sciamāt ha iniziato ad affermarsi. Chi prima vestiva in modo elegante anche per eventi non speciali, ora tende a vestirsi in modo più informale o persino sportivo. Le nuove generazioni, poi, non sanno neanche che una volta c’era un’abitudine consolidata ad indossare abiti più formali. Il cambiamento è radicale».
Come impatta questo sull’abito?
«Sul mio? Ben poco. È caratterizzato da un’impostazione modellistica, stilistica e sutoria che lo rende per molti versi unico nel panorama mondiale. Con questo non voglio dire che è il più bello, ma è certamente unico».
Cosa lo rende tale?
«Il fatto che non abbia imbottiture all’interno. Se si va in una sartoria a Roma, Londra, Parigi, ci si ritrova davanti a capi che vengono imbottiti per pilotare le spalle e dare struttura. Le spalle dei miei abiti sono concave, viaggiano verso l’alto senza necessità di sostegni perché sono ottenute col taglio. Se un sarto mi vedesse tagliare direbbe che il processo è completamente fuori da ogni dettame classico. Ed è proprio questo che rende le mie giacche esclusive, diverse dalle altre, che invece tendono ad assomigliarsi molto tra loro».
Chi cerca Sciamāt, allora, che profilo ha?
«Da connoiseur: sono persone distinte, che sanno bene ciò che vogliono, che non desiderano soltanto un capo fatto a mano ma un abito con una personalità specifica, frutto di un metodo originale e personale. Se cercano Sciamat è perché vogliono esattamente questo stile e sono disposti a riconoscerne il valore, anche sul piano economico, dato che un capo realizzato con un tessuto particolarmente pregiato può arrivare a costare anche 10mila euro in boutique. La clientela è quasi totalmente estera: Giappone, Corea, Stati Uniti, Europa settentrionale, ma anche meridionale. Qualcuno anche qui in Puglia».

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