«La bemolle, La bemolle… qua ci sta bene ‘o La bemolle. Poi Re7. Scrivo senza tastiera io. La musica ce l’ho nella testa». Basterebbero i primi 20 secondi della mia telefonata con Tullio De Piscopo, per rendersi conto del suo infinito genio. Lo chiamo, come d’accordo, alle 11.30 e mi chiede qualche minuto perché sta finendo di comporre. «La richiamo allora, così non disturbo». «No, stai con me mi fa piacere». E così posso raccontare di aver assistito alla composizione di un brano del grande batterista.
L’1 marzo, De Piscopo sarà in scena a Molfetta, nell’Auditorium Regina Pacis, in occasione dell’inaugurazione della stagione “Waves 2025” della Fondazione Valente, con il nuovo progetto “I colori della musica”.
In questo progetto c’è tanto della sua storia professionale ed emotiva. Come lo racconterebbe a chi ancora non l’ha visto?
«Come la cronistoria della mia vita musicale, del mio percorso. Si ascolteranno brani dedicati a uno dei più grandi compositori del Novecento, Astor Piazzolla, rievocando il groove originale di “Libertango”, brano che ho avuto il privilegio di eseguire con lui a soli 24 anni: un’esperienza incredibile. Ci sarà un po’ del mio “fratello in blues” Pino Daniele, e i miei successi come “Stop Bajon”, “Andamento Lento” e tante altre canzoni».
Ce n’è una in particolare a cui è legato?
«“Namina”, che racconta le mie città, Milano e Napoli. È un brano struggente che mi accompagnava quando, da ragazzo, partivo da Napoli con la speranza e la musica che urlava dentro, mentre il treno si allontanava lento».
Che rapporto ha con il jazz?
«Ci sono nato con il jazz. Mio padre era un musicista, come mio fratello Romeo che purtroppo se n’è andato troppo presto. A casa mia, quando aprivo gli occhi, vedevo bacchette, spazzole, tamburi e tamburelli. Ricordo i 78 giri di artisti come Art Blakey, Miles Davis, Charlie Mingus, Charlie Parker e Max Roach. Da bambino ascoltavo questa musica mentre i miei coetanei ascoltavano le canzonette (ride ndr)».
L’omaggio a Pino Daniele che porterà sul palco è particolarmente significativo nell’anno in cui si celebra il decennale della sua scomparsa. Che ricordo ha di Pino?
«Di un uomo straordinario. Pino è sempre presente nelle mie giornate, insieme abbiamo fatto davvero tante cose incredibili. Stavamo scrivendo la storia e non ce ne rendevamo conto».
Le manca spesso?
«Sempre. Mi manca soprattutto suonare insieme. In quei momenti eravamo in perfetta simbiosi. Non avevamo neppure bisogno di provare, bastava uno sguardo. Lo testimoniano gli ultimi concerti insieme che si trovano su YouTube dove ci esibiamo in duo».
C’è una frase di Pino che ricorda con affetto?
«Una volta mi ha detto: “Me salvat ‘a vita, chesta è ‘a terza vota che me salvat ‘a vita”»
A cosa si riferiva?
«Non gliel’ho mai chiesto. È talmente forte questa cosa che non potevo chiederglielo».
Possiamo dire che la vostra sia stata pura avanguardia?
«Assolutamente. Io, Pino, James Senese, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, Tony Esposito: eravamo veramente avanti, e lo siamo ancora. Hanno prodotto il DVD di un nostro concerto a Zurigo dove si può ascoltare un arrangiamento pazzesco di “A me mi piace un blues”. È importante che ai giovani arrivino queste cose».
Parlando di giovani, quanto è stato importante il recente docufilm del discografico Stefano Senardi “Pino Daniele – Nero a metà” per far arrivare la vostra musica alle nuove generazioni?
«Moltissimo. Lo scorso ottobre, il giorno prima che mi consegnassero il Premio Tenco, abbiamo fatto un incontro con 1500 alunni liguri, parlando di Napoli e soprattutto di Pino Daniele. Quando ho visto tutti questi ragazzi, ho pensato “chist mo accendono ‘o telefonin, e buonanotte”. Invece mi sbagliavo: hanno ascoltato con grande interesse. Poi una delle loro insegnanti ha detto che, durante il viaggio in treno per Genova, tutti sono andati su Google a cercare chi fossero Pino Daniele e Tullio De Piscopo. Quella è la vittoria di Stefano Senardi, che ha organizzato tutto».
E poi Stefano ha fatto un lavoro incredibile con il film.
«È vero. Tra le cose che più mi hanno colpito ci sono tre giovani artisti che cantano benissimo le canzoni di Pino: una bellezza incredibile. Eppure negli anni, tanti altri professionisti già affermati non mi hanno convinto con le loro interpretazioni».
Nella sua carriera ha collaborato con tantissimi artisti. C’è qualcuno che le ha lasciato qualcosa di importante?
«Assolutamente. Ho diviso il palco con John Lewis e il Modern Jazz Quartet, con Gerry Mulligan, Barry White e Quincy Jones, per citarne qualcuno. Ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa che porto gelosamente con me».
Il suo modo di suonare la batteria ha influenzato tante generazioni di musicisti. Ma Cos’ha Tullio De Piscopo che non hanno gli altri batteristi?
«‘O core (sorride ndr)».
E tecnicamente, invece?
«E che ce ne fotte della tecnica? (ride ndr). La devi conoscere, ma non usarla. Ai giovani bisogna arrivare con il sentimento. Ormai è tutta una gara a chi fa più note. Non c’è bisogno di fare duemila colpi al minuto. Basta un colpo per far alzare la gente dalla poltrona mentre ti sta ascoltando».
Come vede oggi la scena musicale per i giovani? Ci sono in Italia gli spazi per farli esprimere?
«No. Noi siamo stati fortunati perché avevamo le balere, che erano le discoteche di oggi, ma con l’orchestra. Poi a Napoli avevamo locali adiacenti al porto, dove si suonava per la flotta americana. Lì abbiamo imparato a suonare».
C’è qualche passaggio della sua carriera che non rifarebbe?
«Evoglia! (ride ndr). Ma sono stati tutti errori di gioventù».
Se ne ricorda uno in particolare?
«La cosa più importante è non perdere tempo a fare cose che non ti servono. I giovani devono uscire dalla provincia. Non si devono fermare nel paese dove vivono, con lo spaghetto della mamma e gli amici. Devono avere fame, quella vera. È la fame che ti fa guadagnare tutto. Perché solo così diventi pronto a prenderti quello che vuoi, capisci? Devi fare le tue esperienze, valigia in mano, seguendo una stella, un progetto. Devi farti ascoltare. E se non ti ascoltano, fermati e grida: fatti sentire».
Se Tullio De Piscopo non fosse stato un batterista, cosa avrebbe fatto?
«Il batterista! (ride ndr). Sai cosa? Forse mi sarebbe piaciuto fare il parrucchiere».