C’è il senso di un cattivo gusto in giro tra i nostri giovani. Un gusto che si scopre sempre di più malauguratamente come “gusto del brutto”. Non è un tabù della nostra società, ma è più credibile come colpa della nostra eredità. L’abbiamo formato noi dagli inizi del 2000 un credito stereotipico attagliato sui contorni di un modello proposto dal mercato radiotelevisivo e dalla rete web che emergeva presto nel seguito pubblico.
Uno “stereotipo” che abbiamo lasciato prendesse il sopravvento sull’archetipo (l’origine), che lo prevaricasse nella facilità di affermazione nel sistema politico, che lo esulasse dalla nostra tradizione morale, e infine, che soppiantasse il paradigma sotterrando la ragione sociale. I giorni che vediamo trascorrere ci offrono un esempio incessante dell’esito di questo “ricambio sociale”.
È singolare, intanto, che nel 2007 accadevano contemporaneamente in Italia due eventi che avrebbero rimescolato del tutto il sangue della nostra civiltà europea, ma nessuno poteva credere che avrebbero aperto le porte a un nuovo “secolo sciocco e superbo”. A Perugia si trovava il primo novembre il corpo esanime della giovane Meredith Kercher avvolto sino ad oggi nel mistero delle sue ragioni ancestrali. Ma in quell’anno era apparso anche un altro mistero per l’editoria e le università italiane, la “Storia della bruttezza” di Umberto Eco edito da Bompiani. Due avvenimenti che sembravano tra l’altro richiamarsi a vicenda. Soprattutto sembrava il delitto di Perugia quasi riferito proprio all’ultimo capitolo del libro di Eco, che lui intitola “Il brutto oggi”. Non dovrebbe deluderci il fatto che un caso come quello di Meredith e un libro come quello di Eco, prima con il mezzo più ovvio della stampa internazionale (caso Meredith), e poi col meno ovvio della informatizzazione (caso Eco), abbiano provocato uno dei più sintomatici decorsi storici nella società occidentale del gusto per la Bellezza.
Nel gennaio del 1820, invece, Giacomo Leopardi scriveva un’ode al cardinale Angelo Mai come fosse una odierna lettera pubblica a un funzionario dello Stato, chiedendo all’«italo ardito», così lo chiama, perché non la smette «di svegliar dalle tombe i nostri padri» in un «secol morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio». Ben prima delle avanguardie, ci sono stati in effetti brevi periodi individuati dalla storiografia che hanno segnato una drastica inversione di rotta con al tradizione fino ad allora consegnata. Tempi come l’anno Mille che hanno rotto totalmente gli schemi mentali arrivati dal mondo passato paleocristiano, tali da inventarsi una nuova scrittura corsiva più alla moda, diversa dalla raffinata semionciale carolina, con nuove abitudini e leggi, e soprattutto nuovi gusti estetici. Ogni tempo che ha conosciuto i secoli d’oro ha anche conosciuto il gusto del “brutto”, ma consapevole che corrispondesse a tale.
Altrettanto ogni volta che l’uomo ha preferito il “brutto” al “bello” lo doveva al senso della noia di aver già scoperto la capacità politica della sua società, e in aggiunta la sua carenza spirituale. Ogni volta che è occorso recuperare il brutto è stato anche perché circolava una nostalgia mitologica di tempi aurei passati, non solo, ma anche perché mancava un modello che potesse essere valido per il presente. Mancava in sostanza un archetipo.
La vera domanda da porci oggi è se conserviamo ancora un archetipo di bellezza o se siamo consapevoli del nostro stereotipo del “brutto” assurto a modello sociale, quale odierno “italo ardito”.
Se è vero l’assioma per cui la classe politica di un Paese è il riflesso della sua società, è altrettanto ammissibile che la sua società riflette in primo luogo sulla sua Arte. L’ultimo film di Paolo Sorrentino, “Parthenope”, mostra, così come l’ha fatto Rubini col suo Leopardi indirettamente, agli spettatori come essi stessi siano i narratori di oggi, di una storia della bellezza che sta sempre più divenendo un fotogramma mitologico, un arcaismo remoto, distante dal nostro tempo. I personaggi di Parthenope, mentre si accorgono che la società li bagna in un mare di incosciente ignavia e indifferenza, si compiacciono come se fosse soltanto questo l’unico bello rimasto. Vedendoli ci ricordiamo di questo presente generazionale.
Sullo stato dell’Arte a preoccupare non è la variegata fisionomia del “brutto” che viene raccontato, quali ingiustizie giudiziarie, reati di sangue, crimini di guerra, propagande nostalgiche, partiti lobbistici ed economie parallele all’erario dello Stato, quanto più il fatto che questi episodi tematici non rientrino nello stile testuale della denuncia intellettuale quanto più nella rinuncia quasi compiaciuta della scelta ideale. All’interno di un Paese che ha firmato per vocazione del diritto internazionale sulla famosa stele dei “diritti umani”, non è giustificabile il silenzio sull’espressione pubblica, sia fattuale che intellettuale, della violenza sulla minoranze, né è logico né tanto meno tollerabile che si allestisca una campagna così squisitamente ideologica quanto controversa sul femminicidio se ad essere accolti in sordina dalle istituzioni senza ammonimento sono proprio i testi in cui si vantano donne stuprate e mercificate dal capitale privato. Se in una società che tal si dica in quanto “politica”, l’Arte si scopre esonerata dalla legge, allora sarà anche la legge esonerata dall’Arte, e potrebbe, con un condizionale di pura cortesia, veramente lacerare la tela su cui è dipinto il presupposto di qualunque Costituzione: il Bene comune.
Ignorare la minaccia della diffusione di un morbo che ammala quanti lo ricevono come lecito modello, quindi “imitabile”, non significa svalutare il dibattito aperto dal prete reggino sull’opera di Tony Effe, ma significa che l’insegnamento della materia spirituale è molto rarefatto nelle nostre istruzioni e così lo è anche nelle istituzioni. È nel lato spirituale della realtà che trova spazio la riflessione sul Bene, quindi sulla scelta che tocca all’uomo e non al meccanismo. Il modello che invece viene permesso oggi dalla trasmissione massmediale dell’immagine è l’emblema del qualunquismo, del following, del trovare e non del ricercare, dell’indifferente imitazione, e non emulazione. Per capirci proprio quello che Dante posizionava nell’Antinferno come “ignavia” e che Matteotti denunciava in Parlamento alle Idi del totalitarismo. La generazione dei nostri giovani, quella alla quale dovremo consegnare un giorno le chiavi della nostra democrazia, non sta ricevendo più alcuna traccia scritta o gestuale della “differenza”, ma anzi sta ereditando il culto della “dipendenza” per la quale tutto è indistinto, già deciso, immutabile, omologo e per questo “indifferente”. È possibile forse chiamarlo il brutto della sopravvivenza? Chissà che allora non sia quel che Dante chiamava “viver come bruti”, l’ultima ipotesi dell’estinzione umana.
Ma la recente morte dello studente diciannovenne di Lanciano Andrea Prospero a Perugia è una lampada che ci illumina ancora meglio il colore di questa probabile estinzione, che avviene per mezzo del suicidio. La gravità che si intravede nell’atto descritto come suicidio è proprio l’assenza di un simbolo identitario. Ma allora chi è oggi il nostro “italiano ardito”? È colui che senza accorgersene compie il paradosso del Bello: ammirare lo stereotipo e ignorare l’origine.
Bentornato,
Registratiaccedi al tuo account
Tutte le news di Puglia e Basilicata a portata di click!