Ancora pochi spiccioli di giorni e poi il procuratore della Repubblica di Foggia, Ludovico Vaccaro, dopo otto anni, lascerà la sua città d’origine per accedere all’importante incarico di procuratore generale alla Corte d’Appello di Lecce.
Dal 2017 ad oggi porta nel suo “carniere” otto anni che lo hanno visto protagonista di una lotta dura e serrata alla criminalità organizzata locale.
L’occasione di un dialogo franco a 360 gradi, con Vaccaro, è stata data dall’incontro organizzato dal Tennis Club del capoluogo daunio nell’ambito degli appuntamenti della stagione sociale del circolo.
Procuratore, il suo incarico a Foggia parte in concomitanza con la strage mafiosa di San Marco in Lamis. il duplice omicidio dei fratelli Luciani che finalmente porta lo Stato nel riconoscere la violenza e la pericolosità delle mafie locali. Qual è stato l’approccio per combattere i 9 clan che tenevano sotto scacco il territorio?
«Quando sono rientrato in Procura a Foggia la prima cosa che ho voluto attivare è stata quella di creare una stretta e fattiva collaborazione con le altre istituzioni preposte alla lotta al crimine. Pensai allora di organizzarmi con il prefetto Mariani, il colonnello Marco Aquilio e l’allora questore Mario Della Cioppa, anche loro nominati da pochissimo tempo. Così nacque la “Squadra Stato”, proprio dall’esigenza di sentirci vicini, un po’ come su un fronte. Insomma si avvertiva la forte la responsabilità di dover dare risposte alla comunità ma anche come la difficoltà comune possa unire».
Che anni sono stati?
Sono stati anni di grandi cambiamenti e importanti risultati. È stato creato un lavoro cosiddetto “in rete”, che ha permesso di contrastare il dilagare della criminalità e del malaffare, fenomeni sempre più infiltranti e pervasivi, con oltre un centinaio di interdittive antimafia spiccate e sei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose».
Dati alla mano, che evidenze ha dato il lavoro di squadra?
«Numerose sono state le operazioni concluse. Ricordo che quando sono arrivato non c’erano pentiti, né collaboratori di giustizia. Oggi la Dda può contare su almeno 18 collaboratori di cui 12 dei quali solo sul Gargano. Questo significa che i mafiosi non si sentono più così “onnipotenti” e forti come prima. Io sono sempre stato convinto che la nostra provincia ha possibilità di offrire ai giovani delle alternative diverse, tutte altrettanto valide e gratificanti».
Ma se il lavoro sulle mafie ha portato alla decapitazione dei vertici, stessa cosa non si può dire sulla microcriminalità che affligge il nostro territorio. La percezione da parte dei cittadini continua a rimanere bassa.
«La sicurezza va costruita anche attraverso strumenti tecnici: non ci si può più esimere, per esempio, dall’ampliamento dei sistemi di videosorveglianza, che aiutano il controllo h24 del territorio, e che porta un effetto deterrenza essenziale. Questo non significa che il cittadino si debba sentire esimato dalla partecipazione alla vita sociale. Anzi a maggior ragione se sono testimone di un evento delittuoso, e so che in quella zona ci sono telecamere, devo assumermi la responsabilità di collaborare con la giustizia per definire ancora di più uno stato di legalità».
Che eredità lascia alle istituzioni?
«Agli imprenditori chiedo di avere coraggio e creare opportunità di sviluppo per questa terra. L’Università spero possa recuperare presto il ruolo fondamentale della Terza Missione, che oggi è sconfortantemente calata. Quando l’Università lavorava ‘accanto’ alla Squadra Stato e si è percepito subito il suo ruolo per un rinnovamento culturale nel segno della legalità. Infine alla classe politica chiedo di sviluppare la cultura della legalità e continuare in un percorso di sviluppo della collettività».