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La parola resta l’unico antidoto alle minacce del potere attuale

Alcune vicende drammatiche, come le due principali guerre in corso, preoccupanti, come il conflitto tra Governo e magistratura nel nostro Paese o il conferimento di un rilevante incarico pubblico del presidente degli Stati Uniti all’uomo più ricco del mondo, sollecitano una riflessione su cosa sia il potere e quali forme assuma nella contemporaneità.

Noi umani siamo immersi, da sempre, in relazioni di potere. C’è chi lo esercita e chi lo subisce. L’esercizio del potere è esclusivamente relazionale e i rapporti di potere mostrano due connotati: il primo è un antagonismo ambivalente.

Le relazioni sociali, a partire da quelle tra due partner, mostrano allo stesso tempo interessi contrapposti ma anche comuni. Il secondo: le relazioni sono asimmetriche. Ossia, c’è la possibilità che una parte – individuo, gruppo, Stato – riesca a far valere la propria volontà, anche di fronte a un’eventuale opposizione. Per influenzare il comportamento dell’altra parte, l’asimmetria si manifesta, in primo luogo, attraverso una modalità comunicativa: la minaccia.

Se qualcuno mi chiedesse di consegnargli il portafoglio, sarei certamente più obbediente se mi dicesse di avere una pistola in tasca puntata contro di me. Una minaccia se è credibile può accrescere l’influenza del detentore di potere, che tuttavia spera di non trasformarla in azione. In altre parole, per detenere e accrescere il potere, si paventa la possibilità di una sanzione ma non la sua concreta attuazione. Un caso concreto è quello del controllo sociale che ha il fine di mantenere, attraverso apparati istituzionalizzati, l’ordine costituito.

Epperò chi subisce il potere può anche fare in modo, attraverso azioni conflittuali, che la minaccia paventata si realizzi cosicché, se l’azione non fosse pari alla sua promessa, il potere ne sarebbe screditato. Perciò, qualsiasi detentore di potere non desidera solo l’obbedienza ma richiede la fedeltà: chi subisce il potere dovrebbe riconoscersi in quel potere. È una dinamica che non riguarda solo le relazioni tra Stati sovrani e cittadini ma anche quelle tra organizzazioni criminali e propri associati, tra religioni organizzate e propri credenti, e così via.

Il potere, prima ancora di manifestarsi con la forza, mette in campo quello che il sociologo Pierre Bourdieu ha definito “capitale simbolico”, costituito da autorevolezza, apprezzamento, prestigio, onore, rispetto. Per gli Stati e le istituzioni moderni è la legittimità all’esercizio del potere e al monopolio della violenza. Tuttavia, il capitale simbolico può essere usato contro chi ne è parzialmente provvisto o del tutto sprovvisto, configurando così una violenza simbolica che può essere esercitata con l’imposizione o la manipolazione.

Il potere ha dunque a che fare con l’uso di simboli, cioè con il linguaggio. Anzi, di più: il linguaggio è la posta in gioco del potere. Da decenni, non solo in Italia, le principali forme di potere sovrano – Parlamento, Governo, magistrature, istituzioni sovranazionali – soffrono una profonda crisi di autorità, vale a dire di legittimità. Il pensiero neoliberale, nel Novecento, ha nutrito un’utopia: tenere separate le due principali sfere delle attività umane, il potere politico, da un lato, e l’economia, dall’altro. Il mercato avrebbe dovuto assicurare la parità tra i soggetti, riducendo al minimo qualsiasi interferenza del politico nelle dinamiche economiche.

La dimensione degli interessi privati sarebbe così risultata libera da influenze esterne al mercato. In realtà, come ci dimostrano gli ultimi 50 anni, le due sfere sono indivisibili e a volte indistinguibili. Non solo, il potere non appare più nei luoghi deputati: Parlamento, Governo, magistrature. La sovranità, il potere legittimo, appare oggi quasi del tutto invisibile. È il caso emblematico della finanziarizzazione dell’economia, detonatore della smisurata crescita di diseguaglianze economiche, sociali e culturali. Potremmo dire dov’è e chi detiene il potere della finanza? Assistiamo a un doppio deficit di legittimità: da un lato, si è incrinata la fiducia, fondamento del rapporto col potere costituito e principale collante per rafforzare l’autorità e tenere unite le società. Ne sono spie evidenti la disaffezione per la politica e il fenomeno crescente dell’astensionismo elettorale. Dall’altro lato, il cittadino comune ha la sensazione di non poter fare nulla: sente di vivere in una rete di eventi su cui non ha alcun controllo. Da qui, probabilmente, la diffusione pervasiva di teorie complottistiche. Inoltre, questo primo quarto di nuovo secolo mostra un inedito ritorno a comportamenti predatori dei poteri che, forse un po’ ingenuamente, credevamo superati, considerando arcaiche alcune forme con cui si esibivano, e purtroppo ancora si esibiscono, forza e privilegi.

Facile predire che assisteremo a lotte e conflitti sempre più aspri. Resta, al fondo, una domanda: se il potere non è solo forza e acquisizione di consenso, ma anche produzione di senso comune attraverso simboli e linguaggio, come potrebbero i soggetti, singoli e collettivi, riappropriarsi del loro ruolo di agenti sociali e politici? Non è del tutto semplice rispondere: il transito sembra lungo e accidentato, un approdo ancora lontano. Forse un esordio potrebbe essere la capacità di capovolgere la posta in gioco: dal linguaggio del potere al potere del linguaggio.

Cittadini, gruppi, associazioni, movimenti sociali potrebbero riappropriarsi della parola e partecipare di nuovo attivamente alla vita pubblica, ritornando nelle agorà cittadine lasciate desolatamente vuote per troppo tempo.

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