Qualcosa di nuovo da un po’ di anni sta emergendo. Di nuovo, dal Meridione sta emergendo. “Sta emergendo la tendenza a collocare le attività produttive entro i confini nazionali o presso Paesi ritenuti affidabili sul piano economico e politico”. Recita un passo della relazione del 19 settembre 2024 scritta dal governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta.
“Il divario territoriale che affligge il nostro Paese non può essere colmato con misure di natura assistenziale e con una mera azione redistributiva, ma richiede politiche volte a stimolare lo sviluppo delle regioni meridionali”. Questa è invece la formula d’apertura della relazione. Ma quindi che c’è “di nuovo”? Continuiamo a leggere. “Il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno ha radici profonde e una storia fin troppo lunga. Abbiamo il dovere di contrastarlo… Le condizioni economiche su cui mi sono finora soffermato non possono essere disgiunte da quelle della vita civile. Il rafforzamento della legalità, il contrasto all’economia sommersa, l’attento controllo dell’uso appropriato delle risorse pubbliche sono i presupposti non solo per lo sviluppo economico ma ancor più per il progresso sociale. L’esodo di molti giovani meridionali verso altre aree del Paese, o verso l’estero, non è solo motivato dalla ricerca di migliori opportunità di lavoro, ma riflette anche la diffusa percezione di un contesto in cui non possono realizzare appieno i loro talenti”.
Sono passati più di cento anni da quando Gaetano Salvemini insieme al suo amico Giustino Fortunato sollevarono in Parlamento per la prima volta la cosiddetta “questione meridionale”, ma oggi le parole del Governatore della Banca d’Italia sembrano la rifrazione esatta nella lingua contemporanea di quelle che già leggiamo negli scritti e atti del famoso entourage meridionalista anni ’10 del Novecento.
Identica prosa verbale e identica posa concettuale tra passato e presente. Nessuna novità soggiuntaci. Il tempo è avanzato nel resto della penisola portando nuove fenomenologie partitiche e nuove espressioni democratiche (che a buon diritto chiameremo “neoplasie democratiche”), tranne che nell’area meridionale, dove è rimasto attaccato al ritmo economico dell’aratro.
Del famoso divario pluricitato tra Italia settentrionale e Italia meridionale non continua a vedersi una effettiva strategia non perequativa, ma associativa, dal momento che l’altra ha già mostrato, nonostante i drastici sforzi dispiegati lungo il secolo intero, la sua anacronistica fallacia.
Due piani rispettivamente paralleli quelli del nostro Paese che non possono misurarsi ma soltanto collegarsi all’altezza di uno degli elementi più unificanti della collettività, quale la Cultura.
Unificare è però equidistante sia dall’omologare che dal differenziare, in netta antitesi allora con il recente disegno di legge Calderoli sulla non meglio nota ‘autonomia differenziata’ che sarebbe stata presentata come una riforma di decentralizzazione giurisdizionale nel territorio. Una riforma che se non fosse stata respinta dalla Corte Costituzionale avrebbe deformato ancor più il volto politico della nazione. La Cultura non potrà mai divenire ponte congiuntivo tra le diversità diacroniche del territorio nazionale se questo lo si frantuma in più micro-territori nazionali, ciascuno con una sua cultura autonoma dalle altre. Si creerebbe anzi uno squarcio irreversibile nella grande tela storica della nostra identità repubblicana e democratica, due caratteri che non vanno discinti come nella federazione di stati americana.
Ciò che manca alla saturazione del divario che isola il Meridione non è l’autonomia industriale, ma l’autonomia intellettuale, marginalizzata da troppi decenni e sottovalutata dagli stessi grandi e piccoli centri del sud. Per dirla più chiaramente, si ha l’impressione comune nell’italiano medio meridionale che se c’è qualcosa che può “emancipare” il loro piccolo paese, il loro comune di appartenenza, la loro regione, e tutto il Meridione, è proprio la strategia del capitale e non culturale.
Emergere dunque al sud significa fuggire al nord, esautorando la sua identità civica.
Uno degli strumenti più alti ed efficaci, ma non per questo facili, per l’emancipazione d’un gruppo umano è stato da sempre la sua cultura, e nello specifico, l’Arte. È stata l’Arte a dipartimentalizzare l’intera Francia napoleonica per la costituzione delle prime prefetture e autonomie del potere. È stata sempre l’Arte a far entrare l’Italia, coi suoi più disagianti scheletri economici, nell’Unione Europea. È oggi ancora l’Arte a costituire la maggiore fonte di partecipazione economica e politica tra i Paesi occidentali e orientali. Emergere con l’Arte al Sud è una sfida angusta ma augusta, e rappresenta fissare i primi passi all’interno del nostro territorio per una koinè che congiunga le due realtà e le due società.
Una simile prospettiva possiamo intravederla e sperarla nell’Arte di Antonio Telesca, un pittore e scultore lucano, originario di Acerenza, che opera da tanti anni sulla piccola altura di Forenza (PZ), un paesino che ergendosi solitario tra i monti del sub-appennino, e circondato ai suoi piedi dai boschi della Valle del Bradano, è il “Balcone delle Puglie” che si affaccia all’orizzonte del Tavoliere e del Vulture.
Da sempre artigiano poliedrico, Telesca si è immerso sin da giovane nelle più inconsuete forme delle antiche maestranze, sino a fondare addirittura una stazione radio a Forenza negli anni ’90 insieme a un suo amico. Era una delle prime stazioni radiofoniche sorte in Basilicata.
A caratterizzare l’arte dell’acheruntino non è unicamente la demiurgia compositiva, quanto più l’aporia dell’eccezione che lo solleva dal piano sociale. Un piano sociale che specialmente nella collettività lucana permane consumato dal pregiudizio sull’arte come «ozio improduttivo» per la classe meridionale bisognosa di un negozio lucrativo. In un’ottica miope in cui l’Arte appare incapace di produrre un circuito economico, Telesca dimostra che essa è anzi una cellula fondamentale non solo per la conversione della nostra economia, ma anche per la costruzione della nostra autonomia, identitaria e comunitaria.
Nella sua recente mostra a Forenza, sono stati esposti alcuni dipinti che esulano di gran lunga dal paradigma commerciale protagonista nel resto dell’Europa. La marca più evidente del corpus del pittore acheruntino è un idealismo universale, che rifugge volentieri dallo schema astratto giuntoci dall’avanguardia francese, e di cui ancora oggi molta parte risuona nelle opere dei giovani artisti. È invece una tecnica che rifonda la creatività stessa della gestazione pittorica, dal momento che l’idea espressa nei suoi dipinti non si immagazzina nella materia della tela, ma si conserva aleatoria, labirintica come gli stessi soggetti rappresentati.
Una pittura la presente, che declina la sua espressione cosmopolita in una plasticità scultorea intrisa di spiritualità lucana. Il particolare dell’acrilico reso nelle sue forme policrome accenna all’universale ritmo della società ideale, ma rinuncia alle commissioni che predilige l’attuale economia circolare, ovvero quella dell’uniformità capitalistica tesa all’utilità del reddito.
L’Arte di Telesca si distingue nel Meridione perché il Meridione discerne dalla dipendenza del reddito cui è asservito inconsapevolmente. Ed è questa una delle cause per cui esso non intende altra concezione più originale dell’emancipazione.
L’emancipazione di un popolo arriva sempre quando esso riconosce l’emersione della sua Arte, ed è quanto ora dovremmo avere facoltà di fare con l’opera meridionalis di Antonio Telesca: credere in una “economia della coscienza” e in una “autonomia della differenza”.
Bentornato,
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