Ricordate quando, non più tardi di dieci anni fa, il rapporto De Mauro evidenziava la necessità di investire sul lifelong learning per gli adulti, integrare maggiormente istruzione e lavoro, sviluppare progetti pilota nelle regioni meridionali in modo tale da ridurre i divari tra queste e quelle del Nord? Bene, quei buoni propositi sono rimasti puntualmente lettera morta e tanti problemi sono ancora irrisolti. Almeno questa è la sensazione che si ricava dall’analisi dei dati contenuti nell’indagine Piaac, promossa dall’Ocse con l’obiettivo di misurare le competenze essenziali per partecipare attivamente alla vita adulta nella popolazione di età compresa tra 16 e 65 anni.
I risultati dell’indagine, condotti dall’Inapp su incarico del Ministero del Lavoro, sono alquanto allarmanti e collocano l’Italia agli ultimi posti delle graduatorie dei Paesi con le competenze più solide in literacy (lettura e comprensione di testi scritti), numeracy (comprensione e utilizzo di informazioni matematiche e numeriche) e adaptive problem solving (capacità di centrare un obiettivo in un contesto in cui la soluzione non è immediatamente disponibile).
Per quanto riguarda la prima, il nostro Paese totalizza 245 punti, ben 15 al di sotto della media Ocse; per quanto riguarda la seconda, si ferma a 244, dunque 19 lunghezze al di sotto del livello medio degli altri Paesi; per quanto riguarda il terzo, totalizza 231 punti a fronte dei 251 dell’Ocse.
Ovviamente, Nord e Centro fanno registrare punteggi più elevati di quelli che caratterizzano il Sud. Alcuni dati, poi, destano particolare preoccupazione. In particolare quello sugli adulti con bassi livelli di competenze, i cosiddetti low performer, che dal 2012-2013 al 2022-2023 sono passati dal 27,7 al 34,6%. Vuol dire che un italiano adulto su tre fatica a svolgere compiti basilari di lettura e calcolo.
In numeracy, più del 50% degli adulti residenti nel Sud e nelle Isole si colloca ai livelli più bassi, il che conferma quel divario profondo tra il Mezzogiorno e le regioni del Nord-Est in cui quel valore supera di poco i 20 punti. Il quadro generale, dunque, è piuttosto critico e rivela due note dolenti: da una parte, in Italia c’è un minore accesso all’istruzione terziaria rispetto ad altri Paesi; dall’altra, l’università prepara gli studenti meno bene che altrove.
Come si è arrivati a questa condizione? Semplice: ignorando il problema emerso dal primo ciclo di indagine Piaac nel 2012-2013. Da quel momento, infatti, nessun governo si è premurato di attuare gli interventi strutturali suggeriti nel rapporto De Mauro a proposito di lavoratori adulti, Neet, disoccupati e fasce vulnerabili della popolazione. Ecco perché, come hanno opportunamente evidenziato gli economisti Andrea Gavosto e Barbara Romano in un loro recente lavoro, è indispensabile strutturare percorsi scolastici che consentano ai giovani di acquisire competenze spendibili sul mercato, incrementare il numero dei diplomati che poi accedono agli studi terziari, rafforzare un sistema di apprendimento che sostenga i lavoratori adulti, consolidare l’istruzione tecnica e professionale attraverso percorsi pratici con tirocini e moduli brevi. Altrimenti non solo il Sud continuerà a perdere terreno rispetto al Centro-Nord e l’Italia rispetto al resto dei Paesi aderenti all’Ocse, ma sarà dissipato anche l’unico dato incoraggiante emerso dall’indagine Piaac: l’enorme potenziale dei giovanissimi, confermato dagli ottimi risultati che in ragazzi tra 16 e 24 anni fanno registrare soprattutto in numeracy rispetto alle altre fasce d’età. È questo che vogliamo?
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