Abbiamo discusso già altre volte di come il mercato del lavoro in Italia stia subendo un processo di profonda trasformazione che interessa anche l’aspetto socioculturale del Paese. Negli ultimi 20 anni però, va rilevato che questo processo pare aver coinvolto solo marginalmente le donne. Pur non esistendo più formalmente nessun tipo di preclusione all’accesso delle donne ad ogni tipo di professione, la parità, anche salariale, nel mercato del lavoro sembra essere ancora un miraggio, soprattutto nel meridione d’Italia.
I progressi legislativi nazionali e regionali sembrano non andare di pari passo con quelli occupazionali/salariali: le donne italiane continuano a guadagnare meno dei loro colleghi uomini. Così come rilevato dal Servizio studi della Camera a fine 2023, il 55% delle donne nella fascia 20-64 anni ha un’occupazione, contro il 69,3% della media europea, mentre la differenza nella retribuzione annua media rispetto agli uomini è di quasi 8 mila euro.
Dati confermati anche nel report dall’”Analisi dei Divari di Genere nel Mercato del Lavoro e nel Sistema Previdenziale attraverso i dati INPS”, che ci attesta come le donne continuino a trovare impiego in un range limitato di occupazioni rispetto ai loro colleghi uomini e per lo più concentrate nel settore dei servizi, mentre continuano ad essere sotto rappresentate nel settore manifatturiero e nelle posizioni apicali e maggiormente remunerative. Infatti, meno del 30% delle lavoratrici ricopre la qualifica di dirigente, rispetto a circa il 60% che occupa mansioni impiegatizie.
Ma tanto nel pubblico quanto nel privato, le retribuzioni annue e giornaliere evidenziano un surplus costantemente a favore del sesso maschile, con un gender gap di quasi 6 mila euro che tende a crescere sensibilmente nelle posizioni apicali (mediamente oltre 35 mila euro in meno rispetto ai dirigenti di sesso maschile). Differenze nei livelli retributivi si osservano anche tra lavoratori e lavoratrici con la stessa qualifica professionale e ancora, anche nell’uso dei contratti part-time, con un’incidenza di quasi il 50% per le donne a fronte del 20% per gli uomini.
Stesso discorso per i contratti a tempo determinato. Quasi tutti questi parametri sono più accentuati nelle regioni del Sud, ma ciò che fa ancora più specie è che le donne del Mezzogiorno guadagnano ancora meno rispetto alle loro colleghe del Nord e del Centro. Tale divario, influenzato anche da persistenti stereotipi di genere, che ne limitano le opportunità di carriera e confinano le donne in ruoli meno qualificati e remunerativi, e una più marcata carenza di servizi per l’infanzia e gli anziani, che inficia la possibilità di conciliare vita lavorativa e familiare, incide significativamente sulla vita delle donne e sull’economia nel suo complesso.
Le donne con redditi più bassi, infatti, hanno meno possibilità di accedere a beni e servizi, di costruirsi un futuro economico indipendente e di partecipare attivamente alla vita sociale; inoltre, un’economia in cui le donne non sfruttano appieno il proprio potenziale è un’economia meno dinamica e competitiva. Il divario salariale di genere è un problema complesso che richiede soluzioni strutturate e a lungo termine, per questo motivo sarebbe necessario intervenire energicamente su più fronti per poterlo ridurre: dagli interventi sulle politiche attive del lavoro, utili a promuovere l’occupazione femminile in settori strategici e in ruoli apicali, al maggior sostegno per la conciliazione vita-lavoro, aumentando l’offerta dei servizi per l’infanzia e gli anziani, ad una maggiore flessibilità negli orari di lavoro, agevolando l’utilizzo dello smart working; ma è soprattutto promuovendo campagne di sensibilizzazione per contrastare gli stereotipi e valorizzarne il ruolo nel mondo del lavoro, magari rendendo pubblici i dati sulle retribuzioni per genere, così da favorire la comparabilità e contrastare le discriminazioni, solo così sarà possibile creare un’economia e un Paese più equo e inclusivo.
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