Certo, i dati sull’occupazione sono incoraggianti. Ma quel tasso ormai stabilmente sopra il 62% non è garanzia automatica di certezza e stabilità in un mercato tradizionalmente complesso. Per comprenderlo basta analizzare due elementi decisivi come il livello dei salari reali e il numero di posti di lavoro ancora vacanti, soprattutto negli ultimi anni vere note dolenti per l’Italia e soprattutto per il Mezzogiorno.
Il quadro europeo, come anticipato, è complessivamente positivo. E, di conseguenza, anche quello italiano. I dati recentemente diffusi dalla Cgia di Mestre e puntualmente riportati da “L’Edicola” lo confermano: le imprese italiane hanno dichiarato di voler assumere, nell’arco dei primi tre mesi del 2025, un milione e 370mila persone di cui 380mila a tempo indeterminato.
In Puglia e in Basilicata si prevedono rispettivamente 71.830 e 9.170 ingressi, non a caso quelle di Foggia, Lecce, Brindisi e Matera sono considerate le province più dinamiche. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Come gli economisti Marina Barbini e Fedele De Novellis hanno opportunamente osservato in un loro recente studio, la crescita dell’occupazione in Italia è stata alimentata anche dalla modesta risposta salariale agli aumenti dei prezzi registrati negli ultimi anni. la contrazione del costo del lavoro ha favorito la sostituzione di altri fattori produttivi col fattore lavoro.
E, in Italia, le dinamiche salariali più basse hanno incentivato le assunzioni da parte delle imprese. Se ciò da una parte ha alimentato l’occupazione, dall’altra ha ridotto il potere d’acquisto dei lavoratori. I numeri lo dimostrano: tra 2013 e 2023, i salari sono cresciuti poco meno di 5 punti mentre l’indice armonizzato dei prezzi di oltre 17, con la conseguenza che il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%. Oltre quello dei salari resta il problema del capitale umano.
Nel 2024 il tasso di posti vacanti si è ridotto parallelamente a quello di disoccupazione. Ma sul mercato mancano i lavoratori giovani: la fascia di quelli di età compresa tra 25 e 34 anni si è ridotta dagli 8,5 milioni del 2004 ai 6,2 dello scorso anno, trascinando verso il basso la forza lavoro potenziale; la fascia di quelli di età compresa tra 35 e 49 anni è calata dai 14 milioni di dieci anni da agli 11,5 del 2024 e, di qui al 2040, dovrebbe scendere sotto la soglia dei dieci. Nello stesso tempo, entro il 2028 ben 3 milioni di addetti andranno in pensione e dovranno essere sostituiti: non a caso, nel quinquennio in corso, il fabbisogno occupazione delle imprese pubbliche e private ammonta a 3,6 milioni di persone, circa tre dei quali destinati a sostituire quanti sono prossimi a uscire dal mercato del lavoro. La sfida del prossimo decennio non sarà tanto la reintegrazione di chi ha perso il posto di lavoro nell’ambito di una crisi aziendale quanto la copertura dei posti rimasti vacanti dopo i pensionamenti. Insomma, non è oro tutto quel che luccica. Il calo del tasso di disoccupazione è un dato positivo, se si considera il presente, e incoraggiante, se si guarda al futuro.
Sarebbe un grave errore, tuttavia, ignorare la bassa dinamica salariale, con conseguente riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni dei lavoratori, e la mancanza di forza lavoro giovane, in un momento di ricambio generazionale. Sono questioni che vanno affrontate subito e con misure volte, da un lato, ad accrescere la produttività delle imprese e quindi le paghe dei lavoratori e, dall’altro, a favorire il turn-over tanto nel pubblico quanto nel privato. A meno che non si voglia correre il rischio che certi squilibri del mercato si riverberino negativamente sul tessuto economico, produttivo e sociale del Paese e, in particolare, meridionale.
Raffaele Tovino è segretario generale Sle (Sindacato lavoratori europei)
Bentornato,
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