Da secoli, l’Università italiana gode di una eccellente reputazione, ma oggi questa è a rischio di indebolimento. Numerose ragioni hanno determinato tale condizione e, provando a sintetizzare, tra queste vi sono le continue riforme del sistema universitario, la numerosità delle sedi universitarie e dei loro apparati di governo, gli arruolamenti di docenti a volte caratterizzati da nepotismo, il maggiore favore dei docenti per i ruoli di governo e non per la vera loro missione.
A livello macroscopico, si ha che in circa 30 anni, si è formato un sistema universitario pubblico con troppi Atenei, più o meno piccoli (solo l’Emilia-Romagna ne conta quattro, senza dimenticare le sedi gemmate) e con gli stessi vizi di altre pubbliche amministrazioni.
La riforma del 3+2 introdotta dal ministro Zecchino ha dato una prima fonte di instabilità al sistema universitario: l’Accademia di allora, pur conscia dei rischi di deterioramento della qualità derivanti dall’applicazione della riforma, si è subito attivata per favorirla, anziché contrastarla, abbagliata dal fatto che l’attuazione della riforma determinava la moltiplicazione dei corsi di laurea, degli insegnamenti (spesso con titoli inauditi), delle posizioni da docente, e degli immobili (ma non alloggi per studenti, una grana ereditata dal Pnrr) sempre a carico di “Pantalone”. Ma una successiva riforma ha dato agli Atenei la invocata autonomia e dunque presto gli Atenei si sono ritrovati in crisi finanziaria, nell’impossibilità di incrementare il numero di docenti, di offrire servizi dignitosi agli studenti, di manutenere gli immobili.
Dunque, l’Accademia dell’epoca ha avallato riforme flagello che hanno favorito lo spopolamento degli Atenei sia del Sud-Centro che del Nord, inducendo i laureati triennali del Sud-Centro a concludere il loro percorso con la laurea magistrale in Atenei del Nord per la loro capacità di offrire maggiori opportunità di lavoro, e i triennali del Nord a conseguire il titolo magistrale presso Atenei del Nord Europa.
La riforma del 3+2, inizialmente progettata per fornire laureati triennali alle aziende, ha costretto a tenere i corsi fondamentali in tempi olimpici, penalizzando la capacità di assorbimento da parte degli studenti e ha anche dilatato i tempi per il conseguimento del titolo magistrale. Insomma, le riforme gravano sulle spese delle famiglie italiane, sempre più povere, e hanno portato gli Atenei del Sud-Centro a inventarsi di tutto per attrarre studenti stranieri che ne giustifichino sopravvivenza e l’assegnazione di una quota decente del sempre più esiguo Fondo di finanziamento ordinario assegnato dal Ministero dell’Università, mentre dovrebbero parlarsi per perseguire un virtuoso e più finanziariamente sostenibile processo di unificazione regionale, rispettoso dei territori.
Gli organi di governo delle Università pubbliche denunciano che un problema dell’Università italiana è rappresentato dalle cosiddette “telematiche”, Università private che, come noto, rilasciano ai propri studenti un titolo di laurea che ha valore giuridico pari a quello rilasciato dalle pubbliche. Le pubbliche provano a contrastare le telematiche, anche non accettandone i rettori in seno alla Conferenza dei Rettori (Crui). In altri termini, le pubbliche provano a governare, placcare le telematiche.
Ma, per almeno due ragioni, le pubbliche sono fuori tempo massimo. La prima è che il Covid ha indotto i neodiplomati ad iscriversi alle telematiche con la possibilità di potersi laureare con costi compatibili con il budget delle proprie famiglie (addio ai costosi affitti di Milano) presso una Università privata più performante rispetto alle esigenze dello studente. La seconda ragione è che le telematiche, non soffrendo dal punto di vista finanziario, si attrezzano e assumono con concorso pubblico numerosi docenti di buone o eccellenti qualità altrimenti destinati ad università all’estero, ma anche docenti che optano di passare dalle pubbliche, ove hanno carriere contrastate, alle telematiche.
Quali i punti di debolezza, per ora, delle telematiche? La ricerca prodotta dai docenti, ma questo è giustificato dalla nascita recente delle telematiche e dalla non disponibilità di biblioteche fisiche e laboratori nelle aree Stem che consentano a docenti e dottorandi di svolgere attività di ricerca. E poi nei processi di verifica del grado di preparazione degli studenti che, in taluni casi, denotano qualche leggerezza.
A questo punto, il sistema universitario pubblico ha sul tavolo tre opzioni: la prima è restare chiusi nella torre d’avorio, la seconda è richiedere al Governo nazionale di eliminare il valore giuridico a tutte le lauree, la terza è l’apertura di un dialogo con le telematiche progettando un percorso di partenariato pubblico-privato.
A mio parere, la seconda ipotesi spopolerebbe di studenti gli Atenei pubblici meno blasonati, pesando ancora una volta sulle famiglie. Mentre la terza porterebbe dei vantaggi ad Università pubbliche e telematiche. Infatti, con il partenariato pubblico-privato, le pubbliche godrebbero di un certo sostegno finanziario per l’arruolamento di nuovi docenti e di un maggiore numero di studenti che oggi prestano più attenzione ad un monitor che ad un docente in aula. Le telematiche si solleverebbero dalla condizione di “intoccabile” e i propri docenti, studenti e dottorandi potrebbero accedere a biblioteche e laboratori delle pubbliche determinando quindi l’auspicato progresso nella ricerca.
La proposta è di avviare un processo di osmosi accademica con l’avvio di progetti pilota per alcuni corsi di laurea a ciclo unico, con il titolo finale rilasciato da due Università (una pubblica ed una telematica). In particolare, si ipotizza che gli insegnamenti siano erogati prevalentemente online, ma sia dato anche obbligo, per un certo numero di ore, di frequenza in presenza di lezioni, laboratori e tirocini presso l’Università pubblica o le strutture legate al corso di Laurea, con esame di profitto in presenza. Questo percorso ritengo che possa dare vantaggi numerosi ai docenti, agli studenti e al sistema universitario nazionale, anche contribuendo a superare l’iniquo problema sociale del numero chiuso.
Giuseppe Roberto Tomasicchio ordinario presso l’Università del Salento
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