Alle 16 di martedì 3 dicembre, il presidente della Corte di Assise di Venezia, Stefano Manduzio, legge la sentenza che conclude, dopo sole cinque sedute, il processo di primo grado nei confronti di Filippo Turetta, reo del femminicidio di Giulia Cecchettin. L’assassino viene condannato all’ergastolo, in quanto colpevole dell’omicidio della ragazza, ma dalla sentenza sono scomparse le due aggravanti, che il pm Andrea Petroni aveva richiesto ovvero crudeltà e stalking.
Forse infliggere settantacinque coltellate alla fidanzata non è un atto abominevole e inumano. Forse migliaia di messaggi al cellulare della ragazza non sono stalking. Non spetta a noi il giudizio, ma forse è arrivato il tempo della riflessione. E la riflessione parte da lontano, dal primo canto dell’Iliade, quando un uomo dice a una donna: «Stai al tuo posto, zitta e obbedisci. Ti avviso: se ti metto addosso le mani non basteranno tutti gli dei dell’Olimpo ad aiutarti».
Poco importa se quello che parla è Zeus e chi ascolta è la moglie Era. Poco importa se quello è un poema che risale a 750 anni prima della nascita di Cristo. Forse oltre 3mila anni sono passati invano, forse nell’immaginario collettivo un uomo può ancora fare quello che vuole di una donna, specialmente se è “sua” moglie, trattandola come un oggetto di cui si ha il possesso.
Probabilmente ha ragione Gino Cecchettin, quando a margine della sentenza, ha amaramente affermato: «Abbiamo perso tutti». Abbiamo perso e chissà fino a quando continueremo a perdere.
Bentornato,
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