Core pazzo, core di Napoli. L’eterno ragazzo di “Nu jeans e ‘na maglietta” è nel pieno del suo tour “I miei meravigliosi anni ‘80”, e sembra proprio non volersi fermare. «Voglio stare sul palco fino alla fine», ha detto con un sorriso, alla fine della nostra lunga intervista. E proprio dal palco riparte il cantante napoletano – non neomelodico, ci tiene un sacco a precisarlo -. Domenica sarà a Bari, al Palaflorio, per l’ennesima avventura di una carriera lunghissima.
Quanto si sta divertendo a portare in giro questi suoi “meravigliosi anni ‘80”?
«Tantissimo. Le canzoni degli anni ‘80 sono quelle che m’hanno reso famoso. Sono i momenti più belli della mia vita. Ho pensato di fare un regalo al pubblico di sempre, come a tutti i ragazzi più giovani che non hanno mai visto un mio spettacolo in quegli anni. Ed è un regalo anche per me stesso».
Qual è il brano di questo spettcolo a cui si sente più legato?
«Mi emoziono sempre a cantare “Nu jeans e ‘na maglietta”. È la canzone che mi ha dato tutto quello che ho oggi, l’inizio del sogno. Mi ha cambiato la vita, segnando il mio percorso».
Un percorso non facile il suo…
«Ognuno ha la sua storia. Io nasco nel poco e dal poco emergere non è sempre possibile».
E i suoi genitori? Ci credevano a questa strada artistica?
«Mia madre voleva facessi il cantante, mio padre che portassi i soldi a casa. Anni in cui la disoccupazione faceva parte dei mobili della nostra casa (ride ndr). Alla fine mi è andata bene, sono stato fortunato. Il talento serve, ma senza fortuna non arrivi da nessuna parte».
Qual è il momento in cui ha capito che poteva farcela?
«Proprio nel periodo in cui è uscita “Nu jeans e ‘na maglietta”. Ero convinto di stare facendo qualcosa di rivoluzionario, durante anni in cui la musica napoletana era diventata quasi la canzone della malavita».
Che ne pensa dei talent show che spesso lanciano su grandi palchi ragazzi senza esperienza?
«Se non hai talento non servono a niente i talent. In ogni caso, credo che la gavetta sia fondamentale».
C’è il rischio che questi programmi “brucino” giovani artisti?
«Forse. Però tra avere niente e avere questo, è meglio avere questo che niente (sorride ndr)».
Che legame ha con la sua terra? Come vive il suo essere napoletano?
«Napoli è una città da sempre molto considerata a livello musicale. Tutti hanno cantato la canzone napoletana, sono fiero di essere figlio di questa terra. Sono fiero di venire dalla città di poeti come Salvatore Di Giacomo e Libero Bovio. La musica napoletana non è nazional-popolare, è mondial-popolare».
Non ha mai sentito la sua napoletanità come un freno per la sua carriera?
«Assolutamente sì. Quando arrivavo a Milano ci additavano come terroni. Per tanti anni sono stato considerato il “terrone d’Italia”. Eravamo gli immigrati di allora. Quelli che vengono oggi sui barconi, all’epoca eravamo noi».
E l’ha sofferta questa cosa?
«Da ragazzo meno…»
Perché era un po’ strafottente?
«Esattamente. E anche perchè essere “minore” per me era normale. Sono nato minore, non mi ribellavo a questo».
Poi però la vita le ha dato possibilità di riscatto…
«Sì, e quando diventi “maggiore” è più bello. Come essere poveri e scoprire la ricchezza. Anche se non la rinnego quella povertà, mi ha lasciato dei valori che non vedo più nella società di oggi».
A quali valori si riferisce?
«Prendi la famiglia, l’amicizia. Da ragazzo non ho mai sofferto la solitudine. Oggi ho milioni di fan e mi sento solo. Ho vissuto in tempi in cui la comunità stessa era famiglia, non esistevano gli estranei nel nostro quartiere: la signora che abitava accanto a me diventata mia madre quando lei non c’era. Era una cosa bella, oggi si guarda il prossimo con diffidenza».
Parlando di musica, che ne pensa della nuova scuola dei cantanti partenopei?
«Ogni tempo ha i suoi artisti. La prova del nove sarebbe vedere dove sono questi nuovi volti tra cinquant’anni. Il tempo dà certe risposte».
C’è qualcuno su cui si sente di scommettere?
«Oggi loro l’hanno già vinta la scommessa. Sul futuro sono incerto. Siamo al centro di un grande cambiamento della scena musicale, un cambiamento che ho avuto difficoltà a capire».
Con Sanremo che rapporto ha avuto?
«L’hanno scorso qualcuno ha detto che Geolier è stato il primo a portare una canzone integralmente in napoletano sul palco dell’Ariston. Io negli anni ‘80 ho cantato “Vai” che era napoletana a metà. Poi nel 1999 ho cantato “Senza giacca e crevatta”, interamente napoletana, e ancora “’A storia ‘e nisciuno” nel 2003. Bisognerebbe aggiornare le enciclopedie della canzone napoletana (ride, ndr). E prima di me Peppino Di Capri».
Qualche tempo fa ha dichiarato «non sarò mai un cantante neomelodico», innescando una piccola polemica nell’ambiente…
«La definizione “neomelodico” nasce negli anni ‘90. Secondo me il primo cantante neomelodico è Gigi D’Alessio. Io nasco molto prima come cantante napoletano. Ero il dopo-Merola, il dopo-Sergio Bruni. Ma con me c’è sempre stato l’equivoco dietro l’angolo, non sono mai stato apprezzato completamente».
Qual è quindi il vero equivoco con lei?
«Sai che non l’ho mai capito? Forse una questione di principio, forse per pregiudizio. Tanti dicono “a me Nino D’Angelo non piace” senza magari aver mai ascoltato una canzone».
Chiudiamo con una domanda su Maradona. Che ricordo ha di Diego?
«Era una grande persona. Ha fatto degli errori, che non sto qui a giudicare, e gli ha pagati a caro prezzo».
C’è stato accanimento da parte di tanti nei suoi confronti?
«Quando sei grande come lui cercano di buttarti giù. Lui veniva da niente, come me. Ci assomigliamo umanamente per alcuni versi».
C’è un episodio che ricorda della sua amicizia con lui?
«Quando abbiamo fatto il film “Tifosi” l’ho visto con 30 kili in più. Lì ho capito che stava male, nessuno ha fatto niente per aiutarlo».
Lei ha provato mai a parlarci?
«Sì, ma non mi ha mai parlato dei suoi problemi di droga. Era deluso da tante cose della vita. Ed era difficile gestire il suo personaggio. Diego non è riuscito a gestire Maradona».
Come si vede tra qualche anno? Continuerà a far musica?
«Sì, se Dio mi dà la forza e il pubblico viene ai concerti. Non sono eterno, ma voglio stare sul palco fino alla fine».