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Il corpo manifesto di protesta

Ci sono gesti che passano alla storia perché non sono soltanto rivoluzionari ma raccontano un’idea, una speranza, un sogno.

Così appariva il darsi fuoco in piazza San Venceslao a Praga in quel lontano 16 gennaio 1969 di Jean Palach. Questo il nome dello studente di 21 anni che gridò in faccia al mondo, che vivere con le catene non era vita, e allora meglio il rogo.

Vent’anni dopo, toccava a un altro studente pararsi immobile nella sua compostezza con una camicia bianca e un pantalone nero avanti a una fila di carri armati. Era il 5 giugno 1989, piazza Tienanmen, Pechino e lui semplicemente il “rivoltoso sconosciuto”. Qualche giorno fa ancora una studentessa, Ahoo Daryaei a Teheran. Di nuovo il corpo che grida, urla, vuole farsi sentire. Il corpo, senza abiti che, solo con reggiseno e slip, vuole farsi vedere. Reclama la propria identità tra i passanti indifferenti. Quel corpo che deve essere occultato diventa uno schiaffo violento sul viso di chi fa finta di non notarla. E la nudità perde il connotato di seduzione, ma si trasforma in una forza primordiale che esplode con la violenza della protesta.

Il corpo senza veli non incarna la famosa Afrodite di Cnido, scolpita da Prassitele, ma la rabbia aggressiva di Ares. Passione e distruzione le due pulsioni che risiedono nel profondo dell’animo umano, secondo Freud. E quel corpo così esposto ma così invisibile diventa il corpo di tutte le donne, di tutte quelle morte sul rogo, crocifisse da un potere misogino, o uccise dai ferri infetti di una “mammana”

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