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Moro, Berlinguer e la sindrome del collo retroflesso

Alla Festa del Cinema di Roma il riconoscimento del talento straordinario di Elio Germano – già interprete, magnifico, de “Il Giovane Favoloso” di Mario Martone – ci riconsegna la figura di Enrico Berlinguer; così come solo due anni addietro Fabrizio Gifuni – diretto ma Marco Bellocchio – dava voce e volto agli ultimi giorni di Aldo Moro in Esterno Notte dopo aver portato in giro per i teatri “Con il vostro irridente silenzio” studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale dello statista democristiano.

Siamo fermi lì, e non credo che le produzioni cinematografiche, le produzioni letterarie e saggistiche – ma anche l’analisi politica – si smuovano dal terreno della malinconia. Terreno vischioso, certo. L’ambizione non è quella di comparare epoche storiche incomparabili eppure la domanda resta: perché continuiamo a guardare indietro; cosa ci rende così piccoli da non fare a meno delle spalle dei giganti per scrutare l’orizzonte ovvero anche solo per respirare con il naso.

La spiegazione forse parte dall’analisi insopportabile del presente. La percezione, con i suoi naturali meccanismi di rimozione, che il reale è insopportabile tanto quanto le nostre vite. Alla fine della giostra, al di là delle menzogne, abbiamo la percezione di vivere in un contesto invivibile.

Basta questa percezione? No!

Non basta a spiegare questo collo retroflesso: queste citazioni continue, questa perenne ricerca – una specie di fame di parole non meno asfissiate di quella d’aria – di frasi prese in prestito da altri per dire noi, oggi, quello che pensiamo. Un prestito drammatico perché noi non riusciamo a dire e, se solo ci azzardiamo a volare un po’ in alto, abbiamo bisogno di un’ala di riserva, uno da metterci accanto, che ci faccia da garante, che non ci faccia rovinare per terra. E niente è più necessario delle parole degli altri, del loro pensiero. A noi mancano quelle e il loro antecedente: il pensiero, un pensiero.

Ci giriamo indietro, balbettando, perché del presente orribile abbiamo perso la bussola, abbiamo smarrito i fondamentali per sfangarla, per uscirne. Smarriti. E impauriti.

Smarriti perché abbiamo anche perso le parole per dire, per chiamare per nome anche la rabbia che ci anima, che ci corrode.

Quel mondo – che non c’è più e che non tornerà più – aveva bussole e parole per riconoscersi in una comunità, farne parte e sentirsi parte di una storia collettiva.

Ci giriamo indietro, quindi, perché sospinti dalla forza di questo bisogno che, come le oscillazioni di un pendolo, segnano i due desideri fondamentali: l’identità e la comunità.

Ad essere arditi questi desideri dicono e spiegano la simpatia – la colloco in una chiave laica per non scrivere tomi – per papa Francesco; spiegano anche l’odio profondo che un modo – sono sempre gli stessi – nutre nei suoi confronti.

A proposito di pendolo e di bisogni, concludo in via confidenziale. Gli ultimi giorni di papà a San Giovanni Rotondo accadde una cosa che impatta con queste righe strabiche.

Arrivò un nuovo paziente in reparto e, tornando in stanza, trovammo papà in lacrime. Pensai ai dolori. Si avvicinò mamma a chiedergli il perché di quelle lacrime. «È la figlia di Moro», disse papà indicando una signora che somigliava tanto a Maria Fida. Papà morì pochi giorni dopo. E a me lasciò questa storia che richiama, appunto, storie che hanno segnato vite per sempre.

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