Da un lato le scelte politiche, dall’altro ci sono i dettami della giurisprudenza. Il nodo dei centri di accoglienza in Albania è destinata a tenere banco ancora a lungo nel dibattito pubblico. Per questo il professor Francesco Alicino, docente di diritto dell’immigrazione presso l’Università Lum di Bari, spiega quali sono le norme e i riferimenti giuridici dell’operazione fortemente voluta dal governo di Giorgia Meloni.
Come avrebbe dovuto funzionare il protocollo con l’Albania, anche alla luce dei recenti sviluppi giudiziari?
«Il protocollo è stato sottoscritto a giugno dello scorso anno. Prevedeva la costruzione di due centri di accoglienza in Albania, un hot spot nel porto di Shëngjin e l’altro a 30 minuti di distanza nella città di Gjader suddiviso in tre parti: un centro di prima accoglienza per ospitare i migranti in attesa di rimpatrio, una piccola parte dedicata alla detenzione vera e propria per coloro che hanno commesso reati e un’ultima sezione (la più grande) per ospitare chi è in attesa di ricevere asilo. In Albania era previsto che venissero trasferiti tutti quei migranti intercettati in acque internazionali da autorità italiane e che non fanno parte di alcune categorie: minori, donne e soggetti fragili e tutti coloro che provengono da “Paesi sicuri”».
I centri in Albania sono in ogni caso a gestione italiana. Come si giustificano nel diritto?
«Dopo il “decreto Cutro”, l’Italia ha la possibilità di dichiarare delle zone all’interno del proprio territorio, ed eventualmente con l’accordo di altri paesi all’estero, “zone di frontiera”, nelle quali si ha la possibilità di attuare la procedura accelerata per il dispiego delle domande delle istanze per la richiesta del diritto d’asilo. L’esame della domanda dev’essere effettuato, secondo quanto previsto dal “decreto Cutro”, entro 28 giorni. La “zona di frontiera” anziché trovarsi in Italia, in questo caso è in Albania e questi centri, con il consenso del governo albanese, sono sotto la giurisdizione italiana».
Cosa comporta questo?
«Che saranno gestiti da funzionari italiani. In più, le domande saranno esaminate in via telematica con le Commissioni territoriali. In questo caso le domande di richiesta di diritto d’asilo saranno esaminate dalla Commissione territoriale di Roma e quindi il richiedente asilo che si trova in Albania, in caso la sua domanda venisse rifiutata, la potrà impugnare in via giurisdizionale».
Nel momento in cui non dovessero essere accettate le istanze di richiesta di asilo, cosa accadrebbe?
«In questo caso c’è una parte della struttura dedicata ai soggetti che devono essere rimpatriati. Il problema è che l’esperienza dei centri italiani e della storia migratoria italiana più recente ha dimostrato che è molto difficile rimpatriare, perché il rimpatrio premette degli accordi con i Paesi sicuri» e spesso non sono così facili da effettuare».
Dal punto di vista del Governo, qual è l’obiettivo che si sono prefissi i promotori di questa iniziativa?
«È stato detto esplicitamente dal ministro Piantedosi, ma anche dal presidente del consiglio Meloni, che è quello della deterrenza. E qui entriamo in un ambito che non è politico, ma fa parte della sociologia o della psicologia. La presenza di questi centri può fungere da deterrenza quando ci sono persone che attraversano viaggi disperati per scappare?».