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Il Made in Italy orfano di serie politiche industriali

Che l’economia italiana sia stata colpita da un generale processo di deindustrializzazione è evidente. Tra il 2007 e il 2022 il valore aggiunto reale dell’industria del Nord è diminuito del 14,2% e nel Sud è crollato del 27% (secondo dati dell’Ufficio studi Cgia di Mestre). Le maggiori contrazioni nel periodo 2007-2022, sempre in termini di valore aggiunto, riguardano i settori della raffinazione del petrolio (-38,3%), del legno e della carta (-25,1%) dei prodotti chimici (-23,5%), delle apparecchiature elettriche (-23,2%). Consistente anche la contrazione nel settore del mobile (-15,5%), nel comparto metallurgico (-12,5%), nel tessile (-9,7%), nella produzione di computer (-8,7%) di gomma plastica (-8,7%) e infine nei mezzi di trasporto (-5,1%). Perdiamo terreno nei settori tradizionali su cui si è fondato lo sviluppo della nostra economia, dal tessile al meccanico, ai trasporti, al comparto chimico. Perdiamo terreno nel settore informatico che è quasi sparito.

L’incremento di valore aggiunto registrato in altri settori, nel farmaceutico (più 34,4 per cento), nell’alimentare ( più 18,2 per cento) e nei macchinari (più 4,6 per cento) non serve a compensare il trend negativo degli altri settori, e quindi la contrazione dell’intero settore manifatturiero in termini di valore aggiunto a livello nazionale, nel periodo 2007-2022, si attesta a meno 8 per cento.
Ovviamente non si tratta di sole cifre, dietro i numeri in negativo ci sono lavoratori espulsi dal sistema produttivo industriale: nel periodo 2008-2023 il settore ha perso 547mila occupati, pari a un calo dell’11,1 per cento (secondo dati Confindustria).

Le difficoltà del settore automobilistico potrebbero ulteriormente peggiorare il quadro generale dell’occupazione.

La transizione verso l’auto elettrica avrà notevoli conseguenze sull’occupazione non solo riguardo alla produzione di componenti tradizionali, ma anche per l’assemblaggio.

La strategia dell’unico produttore di automobile presente sul territorio nazionale, Stellantis (ex Fiat), di concentrare in Italia il segmento dell’alta gamma comporterà un ulteriore ridimensionamento della produzione in relazione alla domanda più contenuta.

Dall’inizio degli anni 2000, il gruppo industriale ex Fiat ha chiuso in Italia diversi stabilimenti (Termini Imerese, Valle Ufita, Modena, Pregnana Milanese e San Mauro Torinese e più di recentemente lo stabilimento Maserati di Grugliasco), spostando i suoi più importanti stabilimenti di assemblaggio in Polonia (Tichy e Bielsko-Biala e nella Zona Economica Speciale di Gliwice).

I paesi dell’Est offrono molti vantaggi competitivi: hanno, oltre al ridotto costo del lavoro, minori vincoli circa l’utilizzo della manodopera in relazione agli orari di lavoro e la manodopera è più giovane e maggiormente qualificata per le professioni tecniche e ingegneristiche (conseguenza del sistema educativo dei regime socialisti, indirizzato alle materie tecniche).

Per questo motivo nei Paesi dell’Europa centro-orientale è oggi concentrato quasi un terzo dell’occupazione manifatturiera della Unione europea a 27 (circa 9 milioni di lavoratori su 30) e la Polonia costituisce ormai il terzo Paese per numero di occupati nel settore industriale.

C’è da considerare un ulteriore elemento che induce al pessimismo sul futuro industriale del nostro Paese e riguarda il ridimensionato del capitale italiano negli assetti proprietari: molti importanti impianti italiani, anche in settori di rilevanza strategica per il Paese, sono diventati filiali di multinazionali estere e sono marginalmente coinvolti, se non in alcuni casi del tutto esclusi, dagli investimenti nei più importanti processi di innovazione.

Un caso esemplare è quello degli stabilimenti Bosch e Magneti Marelli di Bari, che sono stati esclusi dagli investimenti sul motore elettrico e non hanno un piano industriale. La difesa e il rilancio dell’industria italiana possono essere sostenuti solo da una politica industriale.

Ed è un paradosso che il governo di Giorgia Meloni, nonostante abbia istituito un ministero intitolato al Made in Italy, non sia stato ancora in grado né di elaborare linee originali di intervento, né di continuare ciò che i governi precedenti avevano impostato non senza difficoltà.

Eppure gli esempi di politiche industriali di successo da imitare non sono pochi in Europa e nel resto del Mondo, e persino nei paesi più liberisti, come il Regno Unito.

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