«Prima di discutere di cittadinanza bisogna partire da una premessa fondamentale: va declinata al plurale, non esiste una cittadinanza ma “le” cittadinanze, al plurale, che dipendono dalle loro caratteristiche empiriche e contingenti». A spiegarlo è il professore Francesco Alicino, docente di Diritto costituzionale e Diritto dell’Immigrazione all’Università “Lum” di Bari.
Professore, cosa intendiamo dunque quando parliamo di cittadinanza e che differenze ci sono tra le varie forme?
«Il pluralismo della cittadinanza si esplica anche nel modo in cui questa si acquisisce, si trasmette e si perde. Lo testimoniano i classici principi giuridici da cui emergono i latinismi: Iure sanguinis (dai legami di sangue), Ius soli (se si nasce sul territorio dello Stato in cui viene concessa), Ius iure comunicationis (trasmessa attraverso una comunicazione parentale). In Italia il dibattito parlamentare ha partorito altre due modalità di acquisto della cittadinanza: lo Ius culturae e, successivamente, lo Ius scholae».
Qual è il loro scopo?
«Entrambe queste due declinazioni, ancora allo stato di proposte, mirano ad aggiornare le formule legislative sulla cittadinanza del 1992, da cui germinano quelle che si chiamano diseconomie esterne. Nel momento in cui la legge del 1992 riconosce diritti di cittadinanza ad alcune persone, legate a situazioni empiriche e contingenti, questa stessa legge produce automaticamente delle disparità negative e delle discriminazioni a danno di altre persone, non cittadini. Attualmente si va dai cittadini pienamente tali, ai figli di immigrati, magari nati in Italia, ma senza cittadinanza, poi si va ai semi cittadini con il permesso di soggiorno, e infine ai rifugiati e agli stranieri in attesa di essere regolarizzati o di ricevere protezione internazionale. Sull’ultimo gradino ci sono coloro che sono considerati non cittadini, non titolari di permessi di soggiorno e privi dei requisiti per accedere alla protezione internazionale e che in teoria dovrebbero essere rimpatriati».
Quali le conseguenze?
«Tutto questo si esaspera alla luce di due emergenze, che ormai possono essere definite permanenti. La prima è quella dell’immigrazione: l’Italia negli ultimi decenni è passata dall’essere una terra principalmente di emigrazione, è diventata un Paese di immigrazione. Ancora oggi l’impatto del fenomeno in Italia, nonostante sia aumentato, è percepito come inferiore rispetto ad altri paesi come Francia e Germania (ex colonie e più appetibili storicamente ed economicamente rispetto all’Italia), dove si parla ormai di immigrati di quarta o quinta generazione. In Italia ci stiamo avvicinando e questo fa logicamente aumentare le richieste di cittadinanza. Per evitare disparità appare evidente che occorra aggiornare la disciplina sulla cittadinanza. Solo che in questo caso il dibattito interno al potere politico, viene contaminato da altri tipi di emergenze come quella finanziaria o i rischi legati al terrorismo di stampo religioso. Le proposte di legge così rimangono solo sulla carta, alimentando i dibattiti ma di fatto non emerge una vera volontà del legislatore di aggiornare la disciplina giuridica del 1992».