La città di Foggia si è svegliata lunedì mattina con un grande vuoto, quello lasciato da tre giovani tifosi, Michele, Gaetano e Samuel, andati a Potenza per vedere la partita Potenza-Foggia e mai rientrati a casa. Un vuoto che nella giornata di ieri è stato confermato dalla manifestazione organizzata dagli studenti delle scuole foggiane riversatisi in massa nelle vie principali del capoluogo daunio per dare il loro saluto ai tre defunti e, uniti, sperare nella salvezza dei due ragazzi in ospedale. Un’intera comunità si interroga su come sia potuto accadere e perché proprio a loro, giovani accomunati da una stessa passione: l’amore per il Foggia. Michele era figlio unico ricordato da alcuni ragazzi come un bravissimo ragazzo che frequentava l’oratorio; Gaetano di 21 anni, aveva compiuto il giorno prima il suo compleanno e aveva iniziato a suonare il tamburo allo stadio, ruolo da lui molto desiderato e che per i tifosi era molto ambito perché con quel suono si dà il ritmo ai cori dei tifosi e, poi, Samuel un ragazzo come tanti altri che voleva seguire la sua squadra del cuore in trasferta.
La loro mancanza ha trovato subito la reazione di incredulità e rabbia dei compagni e anche di tutti quegli studenti a loro coetanei che per un attimo si sono immedesimati in loro. Un vuoto, quello del lutto, che richiede tempo per essere elaborato, un tempo differente in base al tipo di legame che si è instaurato con le vittime. Come ogni lutto la prima reazione è quella di schok e stordimento, accompagnati da uno stato di sospensione della propria esistenza tra ciò che è stato fino a un attimo prima e ciò che si è costretti ad accettare: l’assenza, la perdita. Un momento di incredulità in cui si fa fatica a comprendere ciò che è accaduto. In questa prima fase tutto appare confuso, poco chiaro e la prima cosa che viene spontanea è la negazione. La nostra mente, come reazione psicologica, cerca di negare ciò che in qualche modo ci fa soffrire. Questo è quello che hanno provato gli amici di classe, i parenti stretti delle tre vittime non appena hanno appreso la triste notizia.
A questo è seguito un senso di rabbia non direzionata, una rabbia cieca che proietta la frustrazione della perdita verso se stessi (“potevo impedirgli di andare allo stadio”) o verso gli altri (“la colpa è dell’autista”), verso la stessa persona defunta (“perché mi ha fatto questo, perché è andato lì”). Dopo lo sfogo con la rabbia ha inizio il periodo della negoziazione, gli amici e i parenti cercheranno delle spiegazioni a quanto accaduto e cercheranno delle risposte di fronte alla propria impotenza. Ma, nonostante i tentativi di dare una spiegazione plausibile, l’unica cosa certa che si riesce a vedere è la morte della persona cara che induce in tutti uno stato di depressione, di buio, di vuoto incolmabile e la propria vita sembra essere all’interno di un tunnel senza via d’uscita. Dopo tutto questo solo il tempo riuscirà, dopo fasi alterne di rabbia e depressione, a consentire l’elaborazione del lutto attraverso l’accettazione dell’accaduto, trovando conforto in altro e non più nella presenza fisica del defunto. Ciò che è accaduto a questi giovanissimi fa riflettere i pari e noi tutti sulla fragilità e precarietà della vita. Una precarietà a cui non siamo abituati in una società iperdotata, dove tutto deve essere irrimediabilmente infallibile. E sono proprio parole come fallimento, perdita e mancanza che devono fare sempre più parte del linguaggio comune non come sconfitta ma come una caratteristica inevitabile della vita umana.
Michele Vigilante è psicologo
Bentornato,
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