Lo stacco, a sera, lo da un dito di sbieco di grappa. È il triplice fischio. Partita finita. Nei giorni di festa anche un mezzo sigaro da tirare di lungo, sul solito stradone. I supplementari sono rappresentati dai vocali su whatsapp; l’aramaico in questi casi aiuta. Lo stacco, però, è pura finzione. Non si stacca, perché il vento non si ferma. Ed è un vento vuoto, senza paglia, senza mulinelli.
Ho incrociato, a margine di una trasferta su di un torpedone con il rag. Filini sul sedile affianco al mio e un giovane Renato Zaccarelli alle mie spalle, due fedi nuziali lucentissime. E i loro occhi. Intatti entrambi: un pugno sullo stomaco da restare piegati. Ho dato una scorsa alla mia, alle sue levigature, abrasioni. Me la tengo stretta in uno all’aramaico, s’intende.
A scalare la montagna ho ripreso tra le mani gli appunti di una conferenza e poi un bel libro di Massimo Recalcati. Lo seguo da tempo perché sull’anoressia, su questi tempi ma anche sulla Bibbia, ha scritto cose che a me paiono notevoli.
Nel libro “Le nuove malinconie” s’intrattiene sulla malinconia quale emergenza dell’esistenza come peso, come un peso da trascinare. Lo fa a margine della clinica legata alle anoressie, un dramma rimosso, non visto, che ti impedisce di abbracciare chi ami per non sentirne le ossa. La dimensione che m’interpella, però, travalica i contorni personali; né è pensabile che il dolore del singolo diventi simbolo per leggere altro. No, la dimensione è quella comunitaria, che interpella la civitas, l’insieme dei cittadini, la comunità in cui viviamo che è cosa ben diversa dalla sommatoria di case (urbs). Su questo crinale la melanconia, la sua introversione melanconica, definisce bene questo tempo: il muro torna a essere la cifra del nostro tempo, il muro e quella che Recalcati definisce “la pulsione securitaria”.
A montagna scalata, con il rag. Filini che ha letto e commentato un editorialone di una nota carogna, rimetto a posto un po’ di carte e di ricordi. Riassetto anche pensieri e agende, di sbieco rivedo il cellulare e mi sovviene il solito aramaico. Scendo per ritornare sui miei passi e risentire il solito vento, il “gran serraglio balbuziente” come lo definiva Pier Vittorio Tondelli.
Devo averle riportate da quale che parte le sue ultime cose, scritte ormai con mano malferma nel retro della propria copia di Traduzione della prima lettera ai Corinti di Giovanni Testori. Il tempo di fermarmi, al crocicchio dello stradone, quello del sigaro, e il foglio riemerge: “La letteratura non salva, mai. Tantomeno l’innocente. L’unica cosa che salva è l’Amore fede e la ricaduta della Grazia”.
Bentornato,
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