Nei giorni scorsi Wired ha diffuso la notizia che alcune aziende tra cui Ford, Harley Davidson e la birra Coors sono solo alcune delle società americane che hanno ammesso di aver “rivisto”, se non del tutto abbandonato, le loro iniziative di diversity & inclusion, note come politiche DEI (Diversità, Equità e Inclusione). Questa tendenza, che sta coinvolgendo sempre più brand a livello globale, solleva preoccupazioni profonde sulla reale comprensione e impegno verso l’inclusività nel mondo del lavoro. «Allora era tutto un rainbow whashing?», si chiede qualcuno.
La tendenza negli Usa
Ciò che emerge con forza è una critica sostanziale: molte aziende sembrano aver adottato politiche DEI come una mera facciata, senza un reale impegno nel cambiare la cultura aziendale. Questa superficialità non solo mina l’efficacia delle iniziative, ma rischia di perpetuare e addirittura esacerbare le disuguaglianze che si propone di combattere. Negli Stati Uniti, il Corporate Equality Index (CEI) certifica le aziende più inclusive verso le persone lgbtqia+. Tuttavia, recenti sviluppi politici, come il caso “Students for Fair Admissions v. Harvard”, hanno messo in discussione queste pratiche.
Nel Vecchio Continente
In Europa, si osservano segnali simili. La nuova Commissione europea non prevede più la figura dedicata del commissario per l’uguaglianza, aggregando il tema al portfolio della commissaria per la gestione delle crisi. Speriamo bene! E da noi cosa sta succedendo? In Italia, dove stiamo promuovendo la certificazione per la Parità di Genere con la UNI PDR 125/2022, alcune aziende continuano a perpetuare vecchi schemi e, in alcuni casi, le donne si sentono valorizzate più per il loro genere che per il loro merito, creando paradossalmente una nuova forma di discriminazione mascherata da inclusività.
Le politiche Dei
Questo approccio superficiale alle politiche DEI rivela una profonda incomprensione del loro vero scopo. Non si tratta semplicemente di raggiungere quote o di usare un linguaggio politicamente corretto, ma di creare un ambiente lavorativo genuinamente equo e inclusivo, dove ogni individuo possa esprimere il proprio potenziale senza barriere artificiali. La decisione di alcune aziende negli Usa di fare marcia indietro sulle politiche DEI, presumibilmente per evitare controversie o per proteggere una presunta “identità aziendale”, è miope e potenzialmente dannosa. Non solo rischia di alienare una parte significativa della forza lavoro e dei consumatori, in particolare le generazioni più giovani, ma ignora anche i benefici documentati che la diversità porta in termini di innovazione, creatività e performance aziendale.
L’evoluzione della società
Inoltre, questa tendenza si scontra con l’evoluzione della società verso una maggiore consapevolezza e richiesta di equità. Le politiche DEI non sono un lusso o una moda passeggera, ma una necessità strategica per il successo e la sostenibilità a lungo termine. Le aziende che falliscono nel riconoscere questo rischiano non solo di perdere talenti e opportunità di mercato, ma anche di diventare irrilevanti in un panorama sociale in rapida evoluzione. Sarà vero?
Una riflessione necessaria
La notizia della retromarcia di grandi brand su queste tematiche deve servire come un campanello d’allarme. È tempo di un esame di coscienza collettivo: stiamo davvero progredendo verso una società più equa e inclusiva oppure stiamo assistendo a un pericoloso ritorno al passato mascherato da pragmatismo aziendale? La tematica riguarda ogni persona e comporta impegno e responsabilità per andare oltre, non farsi ingabbiare in logiche distorsive. La società futura, a mio avviso, è quella in cui la diversità non sia solo “tollerata”, ma celebrata come fonte di forza e innovazione. Per fare questo dobbiamo abbassare i toni a tutti i livelli altrimenti sarà facile, per molti, preferire non ascoltare.
Bentornato,
Registratiaccedi al tuo account
Tutte le news di Puglia e Basilicata a portata di click!