Sono 172 i milioni di euro a disposizione dei Piccoli Comuni italiani per riqualificare e mettere in sicurezza i propri territori sono sicuramente una buona notizia e un segnale concreto, e per certi versi straordinario, di attenzione nei confronti dei paesi con meno abitanti. È normale, quindi, che il Ministro Musumeci saluti con soddisfazione la pubblicazione della graduatoria con i progetti ammissibili a finanziamento. Così come è assolutamente legittimo il compiacimento delle amministrazioni locali che sono riuscite a tagliare il traguardo. I numeri, tuttavia, dicono anche altro.
Su 2.638 istanze presentate e 1.179 progetti ammissibili, gli interventi finanziati sono solo 144. Senza ulteriori fondi, quindi, rischia di essere vanificata la grande partecipazione e l’enorme sforzo progettuale prodotto da centinaia di Piccoli Comuni.
Il tema non sfugge neanche al ministro che difatti si è pubblicamente impegnato “a trovare nuove somme al fine di venire incontro alle esigenze del maggior numero possibile di Comunità”.
Il vero salto di qualità, però, sarebbe un altro. Per i piccoli comuni occorre fare di più e diversamente. Mettere le poche risorse disponibili a bando è certamente una scelta politicamente più facile, ma significa anche innescare competizioni tra territori diversissimi chiamati a gareggiare, anche molto velocemente, in un “uno contro tutti” senza nessuna visione d’insieme e con il solo obiettivo di provare a vincere quella che somiglia sempre di più ad una specie di lotteria. La logica dei bandi, già vista con molti fondi PNRR e con il pessimo “Bando Borghi” del Ministro Franceschini, sta generando un meccanismo contrario a quello auspicato: più le procedure sono veloci, competitive e concorrenziali, maggiore è il rischio di penalizzare i Comuni più piccoli, più fragili, con più difficoltà (economiche, di personale e dunque progettuali) e, alla fine, di escludere proprio quelli che avrebbero più bisogno di risorse e interventi straordinari.
È evidente che i bandi destinati ai singoli Piccoli Comuni non sono più lo strumento giusto per risolvere alla radice i problemi delle aree marginali del Paese.
AI Piccoli Comuni, al contrario, serve più che mai una Politica (nazionale e regionale) che “veda” i luoghi, che li sappia “leggere”, che possa coglierne criticità e opportunità per poter intervenire a ragion veduta e dove c’è più bisogno. Una Politica, insomma, più interessata ad innescare processi generativi che a fare spesa con interventi quasi mai risolutivi e spesso anche casuali. È necessario, in altre parole, ritrovare spazi di confronto e di lavoro comune, luoghi di programmazione strategica, momenti di coesione e di pianificazione condivisa, magari tra ambiti territoriali più ampi, per fare scelte più efficaci, per superare la logica dei Campanili e, perché no, recuperare lo spirito della Strategia nazionale per le Aree Interne.
Bentornato,
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