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Due campanelli d’allarme per l’economia

Nel 2023 l’export pugliese è stato di circa 10 miliardi di euro, pari al 21,4% dell’intero export del Mezzogiorno, escluso le isole. La variazione su base annua è stata di +1,4% rispetto ad un più consistente incremento del 2022 pari a +14,3. Un rallentamento quindi, dovuto a diversi fattori, in primo luogo la contrazione produttiva dello stabilimento Ilva di Taranto che ha inciso sulla esportazione di prodotti siderurgici, quest’anno pari a 280 milioni di euro (nel 2022 era stata di 352 milioni), collocandosi all’ultimo posto per valore esportato dei poli siderurgici italiani (dal 2008 la produzione siderurgica della provincia tarantina è crollata dell’81,3%). Come indica il rapporto della Banca d’Italia, in termini di valore nominale l’export è stato sostenuto soprattutto dall’aumento dei prezzi, ma in termini reali il dato è opposto e le esportazioni si sono contratte del 3,4% su base annua.

La bilancia commerciale pugliese risulta ancora deficitaria: le importazioni nel 2023 sono state pari a 11,645 miliardi, portando il saldo negativo a circa un miliardo e mezzo, in miglioramento rispetto all’anno precedente (pari a 2 miliardi e mezzo). I toni trionfalistici sul presunto boom delle esportazioni non sono giustificati dai dati che mostrano una performance non brillante e la persistenza di un deficit ancora rilevante. Il dato delle esportazioni va poi disaggregato per settore e si osserva con sorpresa che la bilancia alimentare pugliese è fortemente deficitaria: la Puglia importa “prodotti di colture agricole non permanenti” (cioè cereali, patate, riso, ortaggi, fiori) per un valore di circa un miliardo di euro ed esporta la stessa categoria di prodotti per un valore di circa 375 milioni con un saldo negativo di più di 600 milioni. Un dato che dimostra la difficoltà del settore agricolo, nel 2023 più di 2.200 imprese agricole hanno chiuso l’attività, con una contrazione del 2,9% su base annua e una riduzione dell’occupazione di circa 1000 unità (gli occupati sono 106.256 unità e le imprese attive 331.034). Il calo del prezzo dei cereali non ha aiutato la produzione pugliese: nel 2022 il prezzo medio del grano duro era pari a 575,25 euro/tonnellata, a fine 2023 è crollato del 36%, attestandosi a 370,75 euro/tonnellata, altri prodotti affini hanno seguito la stessa sorte.

La crescente scarsità di acqua, dovuta alla siccità, l’aumento dei costi di produzione in seguito alla crisi energetica (nonostante che la Puglia sia la prima regione italiana per capacità di produzione elettrica da fonte eolica e possegga anche giacimenti di petrolio) e la concorrenza di filiere produttive alternative sono i fattori che hanno fortemente danneggiato i produttori ortofrutticoli pugliesi con effetti anche sugli investimenti. A peggiorare il quadro una epidemia di peronospora che ha colpito la produzione vinicola, uno dei settori più importanti per l’economia pugliese. Resiste la produzione olearia in un quadro di crescente aumento dei prezzi (la produzione di olive da tavola e da olio è più che raddoppiata rispetto al 2022). La performance del settore industriale è stata più positiva, con crescita dell’esportazione di macchinari e dei mezzi di trasporto (autoveicoli e di aeromobili, i prodotti più rilevanti in termini di export, per un valore di 881 milioni, pari a poco meno di un quinto del totale), di contro molto ridimensionata la vendita di prodotti chimici, di farmaci, di mobili e di articoli in gomma. Il settore industriale è trainato in gran parte dalle multinazionali presenti sul territorio: secondo i dati dell’Agenzia delle Dogane tra il 2018 e il 2022 le imprese multinazionali presenti in Puglia (con circa 4.000 unità locali controllate, che rappresentano solo l’1,5 % degli impianti attivi, ma occupano l’11% degli occupati residenti) hanno contribuito per il 45% alle esportazioni regionali. Questo è un altro elemento di fragilità dell’economia pugliese in quanto, come è noto, la strategia delle multinazionali segue i vantaggi competitivi del mercato globale e non certo gli interessi locali. In questo quadro quasi la metà della capacità regionale di collocare prodotti sui mercati esteri è sotto il controllo di centri decisionali non nazionali.

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