«Da ragazzino ero innamorato di una che non mi filava. Quando fece diciott’anni le mandai a casa 51 rose bianche. Non esistevano i cellulari, mi chiamò sul fisso: “Grazie Marcello, non festeggio il mio compleanno, altrimenti ti avrei invitato”. Mesi dopo eravamo nella sua villa con alcuni amici, vidi un album fotografico e le chiesi il permesso di sfogliarlo. Tra le tante istantanee trovai quelle della festa del suo diciottesimo, che c’era stata. In tutte le foto appariva una una zia, una cugina, una compagna di classe, ognuna con una delle mie rose in mano. Ricordo uno scatto in particolare: una rosa bianca sul pavimento che qualcuno aveva calpestato. In quel momento mi sono sentito esattamente come quel fiore. Oggi non potrebbe succedere, nessuno stampa più le foto». Inizia così il mio incontro con Marcello Introna, con il rigurgito nostalgico di un’emozione lontana. L’autore Mondadori e veterinario (ci tiene un sacco a ricordarlo), in un bar dagli arredi vintage in centro a Bari, mi ha raccontato di sé, ricomponendo un puzzle a tratti amaro, un ventaglio aspro di disillusione, tipica di chi ha sofferto, rimettendosi però sempre in piedi.
Come hai iniziato a scrivere?
«Sono il più piccolo di tre fratelli. Ho sempre vissuto in quartieri fuorimano, quando tornavo a casa da scuola non c’era niente da fare. Dovevo riempire il tempo. Giocavo a calcio, ricordo meravigliosi 1 contro 1 per strada, e poi scrivevo. Ho scritto i primi racconti a 13 anni. Il protagonista ero sempre io, ovviamente un fico della madonna. Forse senza la scrittura sarei finito a drogarmi. “La periferia si chiama così perché è dove la gente si fa le pere” diceva Stefano Benni (ride ndr)».
Nei tuoi romanzi racconti le storie degli altri, piuttosto che le tue…
«Finisco comunque inevitabilmente in quello che scrivo. Non mi sento vecchio abbastanza per qualcosa di dichiaratamente autobiografico».
Io quando scrivo non riesco a prescindere dal raccontarmi, non per protagonismo ma per necessità di parlare di quello che mi succede.
«Di fatto lo faccio, solo che…»
Ti nascondi?
«Sì. Scompongo le vicende, frammento. Spalmo sui personaggi».
Personaggi sempre cupi, controversi. Ti senti così?
«No. Penso però che mediamente l’essere umano faccia schifo. Siamo la specie eletta e la rovina del pianeta. Pensa a Chernobyl: l’uomo non può metterci piede mentre gli animali hanno ripreso a prosperare. Sono ricomparse specie che erano sparite. Si può dedurre che l’impatto dell’uomo sul territorio sia peggiore di un disastro nucleare. Ora lì sembra il giardino dell’Eden…»
Sembri cinico però se parli così.
«Non credo di essere cinico, solo oggettivo. Forse arreso. A 47 anni non ho più la speranza. Mi guardo intorno e tante cose mi fanno schifo. Tutto passa dal clientelismo. Non lavora quello più bravo, non si legge il romanzo più bello, non è premiato il lavoro migliore. Sono parametri secondari».
Però capisci bene il gioco. Non è solo il libro che vende, ma il personaggio. È la logica del mercato.
«Una logica di merda (sorride ndr)».
Come si inverte il trend, educando il lettore?
«Il pubblico lo fa l’offerta. Se l’offerta da almeno vent’anni è pesantemente commerciale, il gusto popolare lo tari su quel livello. È tutto improntato sulla logica de “l’usa e getta”, così non si va da nessuna parte. I ragazzini oggi credono di poter raggiungere la popolarità sbarcando il lunario attraverso social e reality e poi anche chi ci riesce, dopo un anno scompare nel nulla. Ma in questa scalata veloce alla fama non imparano una lezione fondamentale: la cosa più normale è la sconfitta».
Può essere ancora al centro il rapporto umano oggi?
«Ho fatto scelte molto nette. Ho assecondato la mia indole, cerco di tutelare piante e animali. Quelle che mi hanno fatto più male nella vita, con violenza e crudeltà, sono persone che ho beneficato…»
Parliamo d’amore?
«No, di lavoro. Persone che ho aiutato clamorosamente, ricevendo indietro cose terribili. Ma la gratitudine, come ho scritto nel mio romanzo, è una malattia di cui soffrono gli animali».
Questo è lo stesso realismo disilluso in cui si inciampa nei tuoi libri?
«Assolutamente. In genere non sono a lieto fine, la vita stessa non lo è. Vivere è una declinazione eterna della legge del più forte».
I tuoi personaggi portano dentro un evidente senso di perdizione. Cosa ti porta a caratterizzarli così?
«Perché io stesso sono un uomo che vive con un senso di afflizione costante. Con questo non voglio dire di non essere mai felice, direi un’idiozia. Forse però mi sono stancato di lottare».
Stai lavorando a qualcosa di nuovo?
No! (ride ndr). In realtà ho in mente un personaggio che a Bari è stato vilipeso, anche se adesso gli hanno dedicato una strada. Siamo bravissimi a valorizzare le persone post mortem. Si chiamava Pierre Ravanas, francese, da noi Pietro Ravanas. Era un agronomo e se l’olio pugliese è di eccellente qualità lo dobbiamo a lui. Quella è una storia interessante, vedremo.