“Sta’ senza pensier”. L’espressione napoletana per dire “non preoccuparti”. “Gomorra” la serie tv che ha sdoganato questa frase in tutta Italia, rendendola parte del linguaggio quotidiano comune. E se dici “Gomorra”, dici Salvatore Esposito. L’attore, che nella serie interpreta Genny Savastano, sarà a Castellana Grotte stasera alle 21 per “Festivarts”.
Mugnano di Napoli, parte tutto da lì. Che infanzia hai avuto?
«Mio padre barbiere, mamma casalinga, sono cresciuto con il sogno della recitazione, anche se ero un po’ esuberante…».
Esuberante?
«Ero abbastanza iperattivo. Mia madre ne ha passate tante (ride ndr). Passavo tanto tempo a giocare a calcio o con le bici, al parco, con gli amici».
Quando si cresce in periferia, al margine delle grandi città, delle occasioni, riesci a immaginarti arrivare a fare grandi cose?
«Prima sembrava che quello delle periferie fosse un problema del sud Italia. E invece non è così. Spesso mancano i sostegni delle istituzioni, tanti ragazzi crescono senza possibilità, senza “l’alternativa”».
Eppure tu sei cresciuto in periferia. La tua è una svolta in cui sei inciampato o l’hai cercata?
«L’ho sempre rincorsa, coltivandola con lo studio. Raramente le cose arrivano per caso e, anche quando succede, senza delle basi solide non vai da nessuna parte. Ho sempre fatto con la mia famiglia tanti sacrifici che mi hanno permesso di studiare. Questo ha fatto la differenza».
Quali sono stati i primi passi che hai mosso nel mondo dello spettacolo?
«Ho lavorato in un McDonald di Caserta fino a 24 anni. Poi una sera ho capito che non era quella la vita che volevo, dissi ai miei che avrei voluto trasferirmi a Roma per studiare recitazione, cosa che ho fatto con Beatrice Bracco, un acting trainer bravissima che oggi non c’è più. Ho passato due anni e mezzo meravigliosi che mi hanno cambiato come uomo e formato come attore. Da lì a poco ho iniziato a fare i provini per “Gomorra”, è iniziato tutto così».
Parlando di “Gomorra”, quanto ha cambiato la tua vita?
«Totalmente. Un successo così grande avrebbe cambiato la vita a chiunque. Ma mi rifaccio sempre alle parole della mia famiglia che vede ancora in me lo stesso Salvatore di sempre, quello che cambia è la percezione che si ha dall’esterno. Sono arrivato ad una maturità tale da sapere che se mi lasciassi trasportare dalle facili illusioni di questo mondo, la mia carriera finirebbe in un tempo brevissimo».
Cosa rispondi a chi ritiene “Gomorra” una serie tv diseducativa? Personalmente rilego all’arte una funzione narratoria, non educativa…
«Dare un potere educativo ad una serie mi sembra qualcosa di stupido (ride ndr). È un prodotto di finzione che, pur prendendo spunto da una realtà esistente, romanza. La verità è che parlare male di un prodotto che ha avuto un successo del genere, anche internazionale, significa farsi pubblicità».
Non ci trovi anche una buona dose di retorica in queste critiche?
«Lo sai, siamo il Paese della retorica. Un Paese vecchio che non sa spesso guardare oltre il proprio naso. Come italiani abbiamo un sacco di pregi, ma anche altrettanti difetti. Vorrei fare una domanda ai benpensanti, a chi da sempre ha criticato la serie: “Se guardassimo tutti solo e soltanto “Don Matteo”, questo sarebbe sufficiente per eliminare mafie, corruzione e violenza nel nostro paese?”».
La criminalità organizzata è un vissuto quotidiano di tante realtà, non è paradossalmente una forma di omertà non raccontarla?
«Vedere dimostrata la propria inefficienza, l’inconcludenza rispetto a determinate cose fa fare brutte figure. È più comodo spostare l’attenzione, piuttosto che veder sottolineati i propri errori».
Il regista con cui sogni di lavorare?
«Scorsese, Tarantino sono due maestri assoluti. Ma mi piacerebbe tanto lavorare anche con Todd Phillips, con cui ho avuto il piacere di chiacchierare amabilmente».
Un collega?
«Stimo tanti attori. Ho avuto il piacere di lavorare con Gerard Butler, pian piano sto incontrando colleghi di grande spessore. E posso dirti una cosa: più sali di livello, più ti rendi conto di quanto queste persone siano umili, disponibili, al contrario di tantissimi altri che pur senza avere quel talento e quello status, si credono chissà chi».
Credo fortemente che una certa attitudine altezzosa, da superstar, sia sintomo silente di mediocrità…
«Bravissimo, è la stessa impressione che ho avuto io, quello che ho avuto modo di vivere dall’interno».
È un mondo che tende a inglobarti quello dello spettacolo?
«Sta a te tutelarti, circondarti di persone e professionisti con cui condividi le idee, un percorso. La situazione cinema in Italia è davvero complicata, anche per colpa della mediocrità di cui parlavamo che viene troppo spesso scambiata per genialità. Questo ha portato il nostro cinema produrre progetti non appetibili per l’estero, a non incassare. Spero che i produttori inizino a farsi delle domande a riguardo».
Pensi ci sia un futuro per il grande schermo o il futuro sono le piattaforme?
«Il cinema era e resta magia. Nessuna tv gigante, nessun impianto dolby surround può restituire le stesse emozioni della sala. Bisogna educare i nostri figli, i ragazzi nelle scuole, a vivere il cinema. Che la sala resti la padrona, per garantire un futuro roseo al mondo delle pellicole».
Che rapporto hai con i sacrifici quotidiani che il tuo lavoro richiede?
«Ne faccio tanti, il primo non poter vivere con costanza la mia città. Quando poi arrivi ad una certa notorietà perdi parte della tua privacy, devi imparare a conviverci. Imparare lingue che non conosci, lo studio, essere pronti sempre alla trasformazione fisica, ingrassare, dimagrire in base ai personaggi che devi interpretare: fa tutto parte del gioco».
Progetti in corso?
«Il terzo libro, che chiude la trilogia de “Lo Sciamano”, e parla di Christian Costa, un profiler che si occupa di delitti esoterici, a cui spero un giorno di dare una vita cinematografica. Uscirà entro quest’anno credo».
C’è un collega che, guardandolo recitare, ti ha fatto dire da ragazzino “voglio diventare come lui”?
«Russell Crowe. Il mio idolo assoluto. Quando ho visto la sua interpretazione de “Il Gladiatore” e “A Beautiful Mind” ho pensato “Ammazza che figo” (ride ndr). Mi piacerebbe anche solo avvicinarmi a quei livelli, a spaziare tra due vite così distanti con la stessa magistrale interpretazione. È questa la grandezza, l’emozione di questo mestiere».