Dici Amedeo Minghi e non puoi che tornare al 1990. L’Italia eliminata dall’Argentina ai mondiali, Ayrton Senna vincitore del suo secondo Gp di Formula 1 e il cantautore romano sul palco di Sanremo accanto ad una giovanissima Mietta. La carriera del Maestro Minghi è però lunghissima, e va ben oltre quella fortunata partecipazione al Festival, tra collaborazioni con i più importanti cantanti italiani ed un repertorio sterminato che vanta tanti grandi successi. “Anima Sbiadita”, fuori in autunno, l’ultima fatica, l’ultimo regalo. Intanto l’8 agosto Minghi sarà in concerto ad Otranto, nel Fossato del Castello. A qualche settimana dall’evento, racconta qualche aneddoto della sua carriera e svela un’anticipazione sul disco in uscita.
Sanremo ‘83, la canzone è 1950. Chi è Serenella?
«La canzone è tutta simbolica, Serenella è l’Italia, il paese che nel dopoguerra ricomincia a vivere. Con Gaio Chiocchio abbiamo immaginato di raccontare il Paese come fosse una donna».
Esiste il caffè di cui parla nel testo della canzone?
«Certo, a piazza Venezia, a Roma. Un bar notturno, un posto molto frequentato che non chiude mai. Era un punto di riferimento in anni in cui non c’erano tante attività aperte».
Non posso che chiederle di “Vattene amore”. L’ho sempre vista una canzone che richiama immagini surrealiste…
«Può essere definita una canzone surrealista, come in tanti altri modi. È un brano molto importante, uno dei testi più significativi che insieme a Pasquale Panella abbiamo realizzato. C’è dietro una scelta filosofica: una coppia che non vuole arrivare al punto di chiamarsi con nomignoli sdolcinati, è il contrario del suo contenuto. Un testo controverso e spesso male interpretato, la gente delle canzoni spesso ne fa, giustamente, quello che vuole. Ma credo avrebbe meritato un posto di maggior rilievo nel panorama musicale italiano».
Il pubblico però la ama, non c’è dubbio. Perché secondo lei è un po’ sottovalutata dai suoi colleghi?
«Credo il successo immediato che ebbe “Vattene amore” l’abbia fatta diventare, non dico odiata, ma un po’ invadente per gli addetti ai lavori».
Invidia?
«Non so, però sicuramente è stata fraintesa».
Curiosità: perché la scelta dell’unisono con Mietta piuttosto che una armonia delle due voci?
«Perché non è una canzone che nasce per essere armonizzata. Abbiamo fatto dei tentativi, ma erano in contrasto con l’idea della canzone che avevo. E poi credo che l’unisono sia una scelta più drammatica. Una scelta un po’ osè (ride ndr)».
La sua strada artistica ha, tra le tante, incrociato la strada di Mia Martini. Che ricordi ha di lei?
«Parliamo di una grande cantante che, come tutte le cantanti, aveva per forza di cose bisogno di noi autori (ride ndr). Mi ricordo che una volta suonammo in studio un brano chitarra e voce, su cui Luis Bacalov immaginò l’arrangiamento. Lei entrò in studio raffreddata, era un po’ incerta all’inizio, poi cantò una sola volta e fu perfetta, come sempre».
Era così fragile come donna?
«Sicuramente sì. Quando l’ho conosciuta era molto più forte, ci incontrammo quando fece “Piccolo uomo”, di cui ascoltai addirittura il provino. Poi col tempo, le cose della vita l’hanno fatta soffrire, l’hanno indebolita».
Franco Califano?
«Di Franco ho un ricordo bellissimo (ride ndr). Era da amare. Bello, buono, intelligente, ironico, divertente: un uomo eccezionale. Non ci si annoiava mai con lui, era straordinario».
Lei ha partecipato ben otto volte al festival di Sanremo. C’è un episodio di spensieratezza che ricorda con il sorriso?
«I ricordi sono tantissimi. Otto partecipazioni significano otto viaggi, otto storie, otto speranze. La prima volta al Festival, con “1950”, aspettavamo con Gaio Chiocchio l’arrivo delle nostre signore che, per la serata finale della manifestazione, avevano comprato dei vestiti bellissimi. E invece fummo esclusi, arrivammo ultimi, e quegli abiti non li hanno mai indossati».
Ha mai scritto una canzone per far innamorare una donna?
«Sono sincero, credo di no. Però da ragazzo un’arma molto convincente per rimorchiare era la chitarra. È uno strumento aggregante, con gli amici andavamo a piazza di Spagna e ce la giocavamo (sorride ndr)».
È vero che con le interviste non va troppo d’accordo?
«Purtroppo in passato è accaduto tante volte che ho detto delle cose, poi riportate in maniera diversa. Quando si registra si è un po’ nelle vostre mani. Dipende molto dall’onestà intellettuale del giornalista. Magari si prendono certi spunti perché sono più interessanti di altre, scrivendo cose poi non corrispondenti al vero. È un rischio che non amo correre».
“Non c’è vento stasera”, una delle ultime canzoni che ha scritto…
«Non si è obbligati ad amare. Questo vento che si ferma, richiama ad una logica nell’innamoramento. Un amore più maturo, più logico quindi… Esatto. “Ti amo se questo è possibile”, questo voglio comunicare, il fatto che se le cose prendono una brutta piega, nessuno abbia il dovere di amare qualcun altro».
L’ultimo singolo?
«“Dove sei, dove mai”, che sta avendo un bel successo, in pochi giorni ha superato le 100 mila visualizzazioni».
So che non vuole dare anticipazioni sul disco in uscita, “Anima sbiadita”, ma me la regala una chicca?
«È un album in cui mi arrocco, come negli scacchi. Ogni brano ha dei riferimenti, anche musicali, ad un brano che l’ha preceduto. Sono in difesa, in trincea, preparando il mio attacco».