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Il fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, a Polignano: «Il futuro del cibo? Studiarlo» – L’INTERVISTA

Stasera alle 22.45, al “Libro Possibile” di Polignano, c’è Oscar Farinetti. Noto imprenditore e fondatore di “Eataly”, presenterà il suo libro “10 mosse per affrontare il futuro”. Vulcanico, mai banale, al telefono è un piacere confrontarsi con lui. Tra “orgasmi alimentari” e il razzismo del vino naturale, Oscar ne ha per tutti. Da dove nasce…

Stasera alle 22.45, al “Libro Possibile” di Polignano, c’è Oscar Farinetti. Noto imprenditore e fondatore di “Eataly”, presenterà il suo libro “10 mosse per affrontare il futuro”. Vulcanico, mai banale, al telefono è un piacere confrontarsi con lui. Tra “orgasmi alimentari” e il razzismo del vino naturale, Oscar ne ha per tutti.

Da dove nasce l’esigenza di scrivere questo libro?

«Da un sondaggio del 2019 riguardante l’indice di ottimismo tra 130 nazioni. L’Italia è arrivata ultima. Il popolo nato nel paese più bello del mondo, è anche il più triste. Questa dicotomia mi ha dato una spinta, insieme ad una frase tombale di quel maestro di futuro che è stato Leonardo Da Vinci: “Godo in sovrappiù a provarci che a farcela”.»

Quanto siamo influenzati oggi da quello che mangiamo?

«Parecchio. È un cane che si morde la coda. Decidiamo cosa mangiare in base al nostro livello culturale: se sei colto, se sei informato sulle meraviglie del tuo territorio mangerai le cose giuste. Purtroppo nel nostro paese c’è un sacco di gente ignorante».

Qual è la via per una corretta educazione al cibo?

«Siamo al 23esimo posto su 27 nazioni per tasso di lettura in Europa. E un popolo che non legge non può farcela. Leggere crea il dubbio, chi dubita cerca il compromesso. Bisogna cambiare i sentimenti, educando».

La carne fa male?

«Siamo nati per mangiare carne, abbiamo i canini apposta. Mangiarne troppa però, a prescindere dagli equilibri della dieta da rispettare, incide gravemente sul clima. Non sono per un consumo zero della carne, ma per “molto meno e molto buona”».

Quanto il cambiamento climatico influenzerà ciò che arriva sulla nostra tavola?

«Lo sta già influenzando. Stiamo facendo gli struzzi, andiamo verso il baratro, dobbiamo cambiare in fretta il nostro modo di vivere. Ma in Italia siamo avversi al cambiamento. Serve spingere per fonti di energia rinnovabile».

Parliamo di vino: ha senso far distinzione tra vino naturale e convenzionale? L’unica discriminante dovrebbe essere la qualità…

«La definizione “naturale” è razzista. Sottintende che gli altri vini non sono naturali. L’unico vino naturale è l’aceto, per il quale l’uomo non agisce contro il tempo. Poi esistono vini fatti con un certo rispetto della natura. Il compito dell’enologo è cercare di rovinare il meno possibile le meraviglie della campagna. Ogni vino deve rispettare il suo “terroir”, parola inventata in Francia, dove hanno 222 vitigni autoctoni. Nel nostro paese ce ne sono 1200. Loro però rimangono però immensamente più bravi nella narrazione».

E nella produzione…Girando in Francia ho notato un livello altissimo del prodotto medio.

«Hanno il “know-how” derivante da oltre duecento anni di vantaggio, ce l’hanno nel sangue, questo fa la differenza. Ma stiamo colmando il gap, soprattutto sui rossi, mentre su bianchi e spumanti c’è ancora del lavoro da fare. Lei ha ragione quando dice che la discriminante dev’essere la qualità».

È una moda il vino naturale?

«Direi di sì. Le mode sono sempre figlie dell’ignoranza, “se non studio mi adeguo ai canoni generali perché mi manca la cultura”. Ma d’altra parte ci sono produttori che fanno vini cosiddetti “naturali” strepitosi, senza poi definirli così, come Josko Gravner…»

Oppure Movia, che trovo pulitissimo…

«Esattamente. Invece tanti altri fanno vini pieni di difetti evidenti, spacciati per peculiarità. La cartina tornasole è a tavola: versi il bicchiere e rimane lì pieno per due ore. Se il vino è buono il bicchiere vola».

Una volta ha destato scalpore dichiarando che “il Barolo va bevuto freddo”…

«Questo me l’ha insegnato Angelo Gaia: il vino caldo non piace. Un rosso fresco è buono da morire, 12 gradi è la temperatura perfetta».

Non si vanno ad ovattare le caratteristiche organolettiche del prodotto a quella temperatura?

«Credo invece si esaltino. Tutto il contrario di quello che si immaginava una volta, quando mettevano le bottiglie vicino al termosifone… (ride ndr)».

Qual è il futuro del cibo in questo momento storico?

«Ce n’è uno fisico e uno metafisico. Il primo è avere cibo per tutti nel mondo. Siamo 8 miliardi, produciamo cibo per 12 miliardi, eppure 826 milioni di persone non ha da mangiare. Oggi entro mezzanotte, come ogni giorno, 25 mila bambini moriranno di fame. È pazzesco. Dev’essere la priorità su cui intervenire. Parliamo ora di metafisico, il cibo ci fa godere. Una furberia di chi ci ha creato, metterci orgasmi sulle due attività che garantiscono la prosecuzione della specie, mangiare e fare l’amore. Il godimento dev’essere però consapevole. Il cibo è frutto di una filiera: agricoltura, trasformazione, cucina, piatto, questi passaggi fanno la differenza. Desidero la territorialità. Sentire nel piatto, quando mangio, la terra in cui mi trovo in quel momento. Per capire di cibo devi studiare, il futuro del cibo è studiarlo».

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