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Elio e le Storie Tese a Taranto, Faso: «Spotify mi fa schifo. Sul palco ci divertiamo» – L’INTERVISTA

Giornalista: «Posso darle del Tu?» Faso: «No. Dammi del Voi.» E giù a ridere di gusto. Inizia così la telefonata con Nicola Fasani, in arte Faso, uno dei più importanti bassisti del panorama musicale italiano, nonché componente degli Elio e Le Storie Tese. L’iconica band sarà in concerto a Taranto il 26 luglio, all’Arena Villa…

Giornalista: «Posso darle del Tu?» Faso: «No. Dammi del Voi.» E giù a ridere di gusto. Inizia così la telefonata con Nicola Fasani, in arte Faso, uno dei più importanti bassisti del panorama musicale italiano, nonché componente degli Elio e Le Storie Tese. L’iconica band sarà in concerto a Taranto il 26 luglio, all’Arena Villa Peripato. Lo spettacolo è organizzato da Aurora Eventi.

Partiamo dalla tua carriera che ha incrociato quella di Franco Battiato. Com’è stato collaborare con lui?

«Ricevo una telefonata: “Faso ci sei per registrare il disco di Battiato?” Ed io: “Mi precipito!”. Stargli accanto è stato un onore, vederlo lavorare una fortuna. Aveva una grande sensibilità, cercava il confronto con tutti. Un pioniere. Pensa che in auto ho venti cd, uno di questi è “La voce del padrone” (disco di Battiato ndr)».

Vintage. Usi i cd e non Spotify…

«Spotify mi fa schifo. Tutte le playlist proposte dall’algoritmo mi fanno schifo (ride ndr). Non voglio entrare in meccanismi per cui mi ritrovo ad ascoltare qualcosa che non cerco. Non mi va che la musica venga dallo smartphone per poi essere interrotta da una telefonata. Questo ne sminuisce il valore».

Lavori accanto ad Elio da anni. Che uomo c’è dietro il frontman della band? È vero che è impossibile sentirlo stonare?

«In un mondo di gente che va di autotune lui canta delle cose complicatissime senza sbavature. Sono onorato di lavorare con lui, siamo grandi amici da quarant’anni. Il suo lato più interessante è che non se la tira minimamente, se gli dicessi: “Stasera ti va se canto io La follia della donna?” mi risponderebbe “Cazzo, che figata, mi studio la parte di basso!”. Non so quanti cantanti avrebbero lo stesso approccio».

La vostra band ha fatto una gavetta lunghissima. Il talent oggi crea una scorciatoia su questo percorso…

«Una scorciatoia che non ti forma. Passare dal nulla al grande palco è un salto nel vuoto. I Beatles, quando agli inizi erano ad Amburgo, in un anno hanno fatto 180 concerti. Pensa negli anni ’60 che impianti possano aver trovato nei locali. Avranno suonato con gli amplificatori di cartone. Ma lavorare in quelle condizioni ti forma, quando poi arrivi sul palco vero sei un mostro. Negli anni degli esordi andammo a Roma per un concerto, otto ore di viaggio in due macchine scassate stracolme di strumenti. Arriviamo lì e viene giù un nubifragio, il fonico ci dice “Ao regà nun se fa niente, è tutto bagnato”. In una trasferta così è nata “Cara ti amo”, nel periodo di gavetta tutto è energia. Se sei un giovane artista e pensi che la figata sia saltare tutta la strada in salita prima del successo, non hai capito niente».

Vi manca la routine dell’essere in tour?

«Ci sono posizioni diverse all’interno della band. Per quanto mi riguarda sul palco sono felice, se si prospettasse la possibilità di cento date le farei volentieri. Suonare sempre le stesse cose dopo un po’ ci annoia, cambiare i finali delle canzoni, improvvisare, ci stimola la creatività, altrimenti diventa come andare in ufficio, non ci divertiamo più».

Un po’ come suonare musica classica, spartito davanti ed esecuzione…

«Esatto. Il rischio diventa quello di finire per eseguire se stessi. Anche se a volte non è una cosa brutta. Catpita di sentire artisti che trasfigurano le loro canzoni, cambiando arrangiamento o melodia. Eppure Paul McCartney ancora oggi canta “Yesterday” chitarra e voce, com’è nata. Come fosse un’istallazione. A volte stravolgere i pezzi è un errore, un po’ come fare i baffi alla Gioconda».

L’episodio indimenticabile che vi è capitato durante gli anni in tournèe.

«Nessun dubbio, Mangoni che mentre scorrazza durante lo show travestito da “Supergiovane” (canzone della band ndr), si pianta su una trave di legno sul palco, sfondandolo. Sprofondato. Riemerge dopo due secondi dicendo “Non mi sono fatto niente”. Elio rideva così tanto che non riusciva più a cantare (sorride ndr)».

Come vi confrontate con questo politicamente corretto imperante, voi sempre così provocatori in quello che fate?

«Ce ne sbattiamo le palle. Se uno mentre ci ascolta pensa che siamo offensivi o stiamo denigrando qualsivoglia categoria, non ha capito niente di Elio e Le Storie Tese. Serve intelligenza e misura: ovvio che se senti Vannacci dire certe cose è un conto, se le diciamo noi dal palco stiamo usando l’ironia per sensibilizzare, provocando».

Parliamo di etichette: avete sofferto l’essere considerati grandi musicisti che fanno canzoni poco serie?

«Sofferto no. Però ci è capitato di notare che spesso le nostre canzoni vengono lette solo superficialmente. “Uomini con borsello” l’avessimo scritta con un testo alla “Piccolo grande amore” sarebbe forse considerata una delle ballate italiane più belle. Invece nell’umorismo c’è spessore, bisognerebbe leggere le cose su più livelli. Prendi a “La canzone mononota” con cui ci presentammo a Sanremo. Qualcuno scrisse che non meritavamo neanche di essere sul palco, definendola una stronzata. Guarda però l’impatto artistico, ci presentammo al Festival con una canzone fatta solo con un “do”. E sotto tutti i generi musicali. Bisogna solo aprire un po’ la mente».

Arriva un nuovo album?

«Storicamente stiamo tornando ai tempi in cui mia mamma comprava i 45 giri. È il momento dei singoli, sono la cosa più attuale. È questa l’idea che ci stimola di più al momento».

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