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L’Italia è la nuova Sudamerica?

Una pericolosa deriva di tipo sudamericano sta lentamente travolgendo il nostro paese e gli elementi essenziali ci sono tutti: partiti politici ridotti per lo più a comitati elettorali a sostegno di leadership personali; programmi (quando ci sono) ancora infettati dal populismo; generali veterani che si proclamano difensori di una minacciata italica identità, raccogliendo consenso in vista di chissà quali ambizioni o improbabili pronunciamentos; elettori trattati come descamisados a cui si promettono mance pre-elettorali, comizi che ricordano l’oratoria giustizialista di Evita Peron, e infine, il premierato come caudillismo in salsa europea.

Ci sarebbe da sorridere (amaramente), se il quadro sociale non rivelasse che è la stessa struttura della società italiana ad avere ormai assunto certi caratteri sudamericani. In primo luogo la crescita delle diseguaglianze: dall’inizio del nuovo millennio la quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco dei cittadini italiani è cresciuta del 3,8%, mentre la quota in possesso della metà più povera si è ridotta del 4,5%.

Il PIL in termini reali nell’ultimo ventennio è cresciuto in Italia mediamente dello 0,2% annuo (dati Cgia), in termini complessivi solo del 4%, nello stesso periodo il Pil della Spagna è cresciuto del 34,7%, quello della Germania del 26,5 % e della Francia del 25,2%.

Ciò significa che quel poco di ricchezza prodotto in Italia è andato alla parte più ricca della popolazione, mentre la parte più povera ha peggiorato nettamente la sua situazione. Un utile indice sintetico, l’indice di Gini, cattura la situazione della diseguaglianza: nel 1980 la distribuzione della ricchezza in Italia era definita da un basso indice di Gini, pari a 0,295, simile a quello della Svezia (0,282), nel 2023 è pari allo 0,317, in Svezia si attesta allo 0.27, in America Latina è dello 0,465 (in una scala da 0 a 1 dove 0 significa inesistenza di disuguaglianza e 1 disuguaglianza estrema).

Tra qualche anno, dunque, il nostro termine di paragone rischierà di non essere più la vecchia Europa, ma i più lontani paesi del Sudamerica, dove sono finiti i nostri concittadini emigrati più sfortunati. Risultati così deludenti in termini di distribuzione del reddito sono stati causati in primo luogo dall’andamento dei salari che negli ultimi trenta anni, dal 1991 al 2022, sono cresciuti di un misero l’1%, di fronte ad una crescita media del 32,5% nell’area Ocse. E non solo, perché questo trentennio ha anche segnato una riduzione progressiva di tutte le forme di protezione sociale peggiorando le condizioni di vita e di lavoro soprattutto della parte più povera della popolazione.

Se si fa riferimento al dato degli infortuni e delle morti sul lavoro si comprende come questo nostro paese stia scivolando verso forme di sfruttamento che ricordano le condizioni delle fabbriche del XIX secolo. Nel periodo 2000-2009, la media di infortuni mortali ogni 100 mila occupati si attestava al 5,9%, nel 2010-2019 era del 5,8%, nel solo anno 2022 è stata del 5,2%. I dati mostrano che nulla è stato fatto in questi anni per limitare questa tragedia. E la dinamica dei salari è nettamente peggiorata nell’ultimo triennio, come mostra un recente studio pubblicato da LaVoce.info.

Le retribuzioni lorde annue per dipendente sono cresciute nel decennio 2013-2022 del 12%, pari alla metà di quella osservata nell’Unione Europea (+23%). Tra il 2019 e il 2023, a fronte di un’inflazione pari al 16,2% (considerando l’indice dei dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale), i salari sono aumentati del 5,4% mostrando una diminuzione in termini reali del 9,3%. Questo scollamento tra salari e prezzi influenza le decisioni di spesa generando aspettative negative che si traducono in una domanda decrescente per consumi. Non sorprende quindi che la variazione del PIL stimata per il 2024 sia solo di + 0,6%. Dati che certamente non sono confortanti. Intanto tutto è schiacciato sotto una pesante clima di propaganda e di distrazione di massa, accompagnato da un generale impoverimento culturale e critico, così come insegna, appunto, il modello sudamericano.

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