Una premessa: l’8 marzo, ogni anno, c’è veramente poco da festeggiare. Perché quella giornata, tradizionalmente dedicata alle donne, riaccende i riflettori non solo sulle violenze fisiche, verbali e psicologiche cui esse sono sottoposte, ma anche sulle disparità e sulle inefficienze del mercato del lavoro che frenano lo sviluppo economico dell’Italia e, in particolare, del Mezzogiorno.
I dati recentemente diffusi dalla Svimez, d’altra parte, non lasciano spazio a dubbi. Tra 2002 e 2021 circa 140mila nostre connazionali hanno deciso di emigrare all’estero ritenendolo più attrattivo, cioè caratterizzato da salari più elevati e da servizi di conciliazione più efficienti. Questa “emorragia” ha sottratto quasi 99mila donne al Centro-Nord e 40mila al Sud. Tra le due aree del Paese, inoltre, i divari sono netti anche per quanto riguarda la presenza femminile nel mondo del lavoro. Al Centro-Nord il tasso di occupazione per le donne tra 20 e 64 anni si attesta al 65,4% con punte dell’82,5 per le laureate; al Sud, invece, questi due dati non vanno rispettivamente oltre il 38,5 e il 68,4%. Ancora, in Italia il lavoro femminile è più povero e precario, il che significa che le donne sono costrette troppe volte ad accettare impieghi part-time e buste paga meno “pesanti”. E questo fenomeno è particolarmente evidente al Sud, dove il 30,7% delle donne ha un contratto part-time e il 18,3 porta a casa un salario basso, situazioni che nel caso degli uomini si verificano solo nel 9,7 e nel 13,2% dei casi. Infine ci sono gli inattivi che in Italia ammontano a 9,8 milioni di cui il 70% costituito proprio da donne. In questo caso, Centro-Nord e Sud sono sostanzialmente appaiati, visto che la quota di donne che non lavorano né studiano oscilla tra il 67 e il 68%. E a destare particolare allarme sono le motivazioni per le quali le donne restano inattive: circa il 40% per motivi familiari e il 14 per ragioni di studio, il che dimostra quanto, in Italia, i servizi di conciliazione dei tempi di lavoro e vita privata siano scarsi e inadeguati.
Eppure la parità tra uomo e donne conviene a tutti, capace com’è di favorire un mercato del lavoro più inclusivo, equo ed efficiente. E quella stessa parità, inoltre, è il viatico per lo sviluppo economico: un aumento del 10% della forza lavoro, attraverso l’incremento dell’occupazione femminile, farebbe impennare il pil nella stessa misura nel lungo periodo, soprattutto in aree tradizionalmente depresse come il Mezzogiorno. Per centrare questo obiettivo, però, bisogna eliminare la cosiddetta “child penalty” nei tassi di ingresso e uscita dal mondo del lavoro in modo tale da far lievitare il tasso di occupazione femminile del 6,5% entro il 2040, come le economiste Francesca Carta, Marta De Philippis, Lucia Rizzica ed Eliana Viviano hanno calcolato. In concreto, questo vuol dire incrementare la disponibilità di asili nido per bambini da 0 a 2 anni, consentire un più largo ricorso ai congedi da parte dei papà e modificare un sistema di tassazione e trasferimenti che, prevedendo crediti d’imposta per il coniuge a carico, scoraggia l’occupazione delle donne che generalmente sono i membri della famiglia con le peggiori prospettive retributive.
Le discriminazioni, insomma, sono figlie di un passato duro a morire e richiedono uno sforzo collettivo, come il presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro Renato Brunetta ha opportunamente osservato. Quello sforzo collettivo deve prevedere non solo la lotta agli stereotipi, ma anche il miglioramento delle politiche di conciliazione, la rivisitazione del sistema di tassazione, la promozione di un’organizzazione del lavoro più flessibile. Altrimenti la dignità delle donne e l’economia del nostro Paese continueranno a essere calpestate non solo da retaggi e violenze di vario tipo, ma anche da una politica incapace di guardare al futuro.
Bentornato,
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