«I problemi collegati alla performance di alcuni apparati pubblici o alla qualità delle prestazioni vengono spesso imputati a costruzioni dell’ordinamento ma in realtà dipendono altrettanto se non di più dalle classi dirigenti, dall’economia e dalla politica». Ad affermarlo è Ignazio Lagrotta, professore di Diritto Pubblico all’Università degli studi di Bari.
Professore, cosa cambierà dal punto di vista legislativo?
«Questa legge dà corpo e gambe ad una norma costituzionale rimasta inattuata per oltre venti anni. Vengono stabilite le procedure e le modalità per attuare il precetto costituzionale. Anche se le pre-intese del 2018, sottoscritte dal Governo Gentiloni, e le bozze d’intesa del 2019 del governo Conte lasciavano intendere che si potesse procedere all’attuazione dell’art. 116 della Costituzione anche senza una legge quadro di attuazione».
Già la riforma del titolo V della Costituzione ha aperto la strada a un regionalismo più spinto.
«Non si tratta di un’altra riforma o di un’ulteriore modifica dell’assetto costituzionale. La legge Calderoli introduce disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Il trasferimento avverrà in futuro sulla scorta delle intese che le singole Regioni stipuleranno con il Governo».
Perché secondo lei le regioni del Sud si oppongono al progetto?
«C’è il timore che l’attuazione dell’autonomia differenziata possa cristallizzare le differenze territoriali non consentendo più alle regioni meno sviluppate di poter recuperare il gap tra i territori. Tuttavia, mi permetta una riflessione ulteriore. Le differenze economiche e sociali tra le aree geografiche del Sud e del Nord del nostro Paese risalgono agli albori dello Stato repubblicano. Da allora le differenze non sono state colmate e addirittura sono aumentate. È colpa dell’autonomia differenziata? Con onestà andrebbero indagate le ragioni più profonde che non hanno permesso ad un territorio meraviglioso, quale il nostro, di esprimere appieno le potenzialità di risorse umane e territoriali che nulla hanno da invidiare alle aree più sviluppate del Paese. Forse un poco di autocritica non guasterebbe».
Come si potrebbero affrontare le preoccupazioni delle regioni del Sud per evitare una disparità nell’accesso alle risorse e alle opportunità?
«È difficile sintetizzare un tema tanto complesso. Ho sempre ritenuto che l’autonomia differenziata andasse declinata nell’ambito della cornice di unità nazionale e di solidarietà che caratterizza il nostro ordinamento. Riconoscendo, secondo il principio di sussidiarietà verticale, maggiori competenze e funzioni a quelle Regioni ed Enti locali che dimostrano di poter fare meglio dello Stato. Declinando tale concetto secondo i criteri di efficienza ed economicità dell’azione della p.a. Quindi ti premio con maggiori competenze sia legislative che amministrative perché raggiungi dei risultati migliori sostenendo dei costi inferiori. In questo modo la migliore efficienza di alcune regioni potrebbe liberare risorse e non assorbirle a scapito delle altre».
Il dibattito fino ad oggi è stato caratterizzato da grande radicalità: da una parte i favorevoli e dall’altra i contrari. C’erano secondo lei i margini per trovare una mediazione politica sul testo?
«Il Parlamento è la sede deputata al confronto. Il testo della legge Calderoli approvato il 23 gennaio 2024 è molto differente rispetto a quello originariamente presentato. Molti emendamenti approvati sono stati promossi dalle opposizioni. Penso che sino a quando il provvedimento non venga licenziato in via definitiva ci sia sempre spazio per una mediazione politica per migliorarlo».
Pensa che si arriverà al referendum?
«Varie forze politiche hanno già preannunciato di voler ricorrere allo strumento referendario chiedendo ai cittadini di esprimersi. Va detto che non sarà semplice. La Legge Calderoli potrebbe essere ritenuta dalla Consulta «a contenuto costituzionalmente vincolato» in quanto dà attuazione ad un precetto costituzionale. Tali leggi sono sottratte al referendum abrogativo. Se così fosse risulterebbe difficile anche un ricorso alla Corte costituzionale affinché ne pronunzi l’illegittimità, in quanto si creerebbe un vuoto normativo a seguito dell’annullamento».