Grazie anche ai 17 punti dell’Agenda Onu 2030 la sostenibilità è uno degli obiettivi da perseguire nella produzione di beni e servizi. Il settore agroalimentare come tutti gli altri non può sottrarsi. Francesco Laporta di Agritalia, un’associazione di produttori che opera in Puglia, Basilicata e Sicilia, spiega che in Italia l’intero comparto, grazie al principio di aggregazione, è ben avviato verso una produzione sostenibile e, soprattutto, rivela che in Puglia ci sono esempi virtuosi di aziende che hanno deciso di fare rete per investire in ricerca, produzione integrata e impegnarsi nel sociale.
Francesco Laporta, qual è lo stato di salute del settore agroalimentare?
«In questo momento sta vivendo un forte fase di transizione in quanto l’aggregazione e l’associazionismo stanno portando avanti dei progetti come i contratti di filiera o progetti commerciali che hanno di base l’idea di promuovere un pensiero unico in termini di produzione».
In Puglia invece?
«C’è fermento. Basti pensare che Agritalia come organizzazione di produttori conta 50 soci tra Puglia Basilicata e Sicilia e 700 ettari di produzione. Come noi ci sono tante altre Op. finalmente si è capito che il network crea valore».
Come è nata una simile necessità?
«In Italia abbiamo una frammentazione molto alta del territorio in termini di proprietà. Questo non accade in Europa o nei paesi extra Ue. Sul nostro territorio sono tanti i medi e piccoli produttori e questo non aiuta il singolo, a meno che non si decida di fare rete».
Cosa significa esattamente “fare rete”?
«L’ esigenza dell’aggregazione non è figlia di una logica estemporanea ma della necessità di restare sul mercato competitivi non solo dal punto di vista dei prezzi ma anche per quanto riguarda la varietà e la qualità dei prodotti. Stare al passo con i tempi in termini di ricerca e sviluppo è importante, aggregare gli attori sul mercato agroalimentare significa prepararli anche a sostenere spese che il comune acquirente neanche immagina».
Può farci un esempio?
«A Bisceglie c’è un produttore che avvia la raccolta delle ciliegie 15 giorni prima della classica raccolta stagionale, questo grazie ad un importante studio effettuato sulla copertura del prodotto. Qui l’impegno aggregativo ha portato oltre che una commercializzazione più veloce anche la possibilità di finanziare la ricerca con le università. Simili processi di sviluppo sono stati ad esempio avviati anche sull’uva senza semi italiana o sulla canapa. Poi ci sono anche ricerche che vanno nella direzione della qualità».
Cosa intende dire?
«Buono non è solo una questione di gusto, buono è anche salute. Si sta eliminando la produzione intensiva e molte aziende hanno inserito le api nei propri territori o hanno favorito la biodiversità. Questo è avvenuto tramite la creazione di una rete che le rendesse “più grandi” e abbassasse i costi di adeguamento. L’aggregazione in questo senso significa coralità di differenti player che interagiscono nella stessa fetta di mercato».
Come funzionano le organizzazioni dei produttori?
«Hanno uno statuto e sono delle società cooperative, il cui scopo è la valorizzazione e commercializzazione del prodotto. Bisogna considerare che l’ortofrutta di base è il canale di distribuzione più lungo di tutti i mercati. Con le Op si cerca di accorciare queste distanze, le leve per il prezzo finale sono minori così come il prezzo al consumatore».
In che modo le Op si impegnano nel sociale e promuovono il territorio?
«Uno dei progetti di Agritalia, ad esempio, realizzato con Caritas di Trani, prevede dei programmi di integrazione socio- lavorativa per i ragazzi che provengono da situazioni di disagio. Nello specifico vengono inseriti nel mondo professionale dopo una fase di formazione, perché nel settore dell’ortofrutta è indispensabile. Non si pensi che sia un settore a bassa formazione di capitale umano».