(Adnkronos) – Ragazzini, a volte ancora bambini, che agiscono in maniera estemporanea e spesso senza un vero motivo, se non quello di dimostrare di avere il coraggio di fare un’azione violenta, di cui vantarsi poi sui social, amplificando così l’effetto-emulazione. Dietro alle ‘spacconate’ esibite in rete, però, si nasconde un disagio giovanile profondo e diffuso, tanto tra i ragazzini che provengono da contesti difficili, quanto tra i borghesi delle ricche province del Nord. Quello delle ‘teen gang’ “è un fenomeno ampio e vario”, avverte Marco Dugato, ricercatore del centro Transcrime dell’Università Cattolica, che l’anno scorso insieme al Dipartimento della pubblica sicurezza e al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha curato il primo report sulle bande di giovanissimi attive in Italia.
“E’ difficile fare un identikit delle baby gang, perché ce ne sono di natura molto diversa. Anzi, nella maggior parte dei casi che osserviamo, soprattutto al Nord, non si possono definire ‘gang’, perché non sono organizzate in una struttura. Si tratta di gruppi di ragazzi che si uniscono non necessariamente con finalità criminali, ma che in alcuni casi finiscono per compiere azioni violente”, spiega Dugato. La cifra è quella di “azioni spesso estemporanee, senza una pianificazione dietro e spesso senza una finalità economica”.
Questi giovanissimi aggrediscono e rapinano i coetanei, agendo d’impeto. Spesso si tratta di “un atto di bullismo che tracima in una rapina o parte tutto da una bravata, dalla volontà di compiere un atto estremo, che dimostri chi è il duro della situazione”. Un meccanismo ben “diverso – avverte il ricercatore – dalle attività criminali pianificate”.
Così come a distinguere il membro di una ‘teen gang’ da un criminale professionista “è che molti di questi ragazzi non sono razionali nel loro agire, non hanno la consapevolezza della gravità delle loro azioni”. Né, tanto meno, dei rischi cui vanno incontro. Un dettaglio che si dovrebbe tenere presente “quando si propone di aumentare le pene, perché al ragazzino che agisce d’impeto, non cambia nulla sapere se rischia uno o due anni di più. In alcuni casi non sa nemmeno che quello che commette è un reato”.
Per Dugato “la pura repressione serve a poco, può avere un effetto limitato nel breve periodo, ma non risolve il problema. Bisognerebbe invece agire in ambito preventivo, con il potenziamento dei servizi sociali e la scuola, dove si possono intercettare i casi problematici in maniera molto prematura”. Quanto? “Da quel che vediamo, i segni di disagio ci sono già nei bambini. Quindi è importante iniziare attività di supporto dalle medie e in alcuni casi dalle elementari”.
Una delle leve è l’educazione digitale. “Eliminare social o telefono non ha senso. Sono parte della nostra quotidianità e lo saranno sempre più, quindi bisogna educare i ragazzi all’uso di questi strumenti, rendendoli più consapevoli”. Fuori dalla scuola, secondo il ricercatore è importante potenziare i servizi sociali minorili, che “al momento sono al collasso o quasi”. Così come le comunità e le carceri minorili, strutture “che già non riescono a stare al passo” e in cui “è rischioso aumentare il numero di ragazzi”.