«Sono profondamente deluso. È stata sprecata l’occasione per una riforma della giustizia in senso sostanziale. Anzi, è stato mancato un vero e proprio appuntamento con la storia». Raffaele Della Valle risponde al termine di un’udienza a Ravenna, pochi minuti prima di salire a bordo della sua auto e fare rientro a Milano. Nella voce del decano dei penalisti italiani, che negli anni Ottanta difese il presentatore televisivo Enzo Tortora dalle infamanti (e campate in aria) accuse di associazione camorristica e traffico di droga, più che l’inevitabile stanchezza di una dura giornata di lavoro c’è l’amarezza di chi da tempo si batte invano per una giustizia più equa e credibile. È in questo senso che Della Valle parla del flop del referendum sulla “giustizia giusta” come di un’occasione sprecata.
Avvocato, che cosa pensa del mancato raggiungimento del quorum?
«Provo una grande delusione. Anche perché adesso, per sperare di cambiare la giustizia in questo Paese, bisognerà affidarsi a una riforma che è soltanto un pannicello caldo».
Ha vinto la parte più conservatrice del Paese?
«Mi dispiace dirlo, ma ha vinto il binomio formato da magistratura e mezzi di informazione che hanno boicottato il referendum in tutti i modi. La prima opponendosi con fermezza alla consultazione elettorale, i secondi facendo calare il silenzio su un tema cruciale per la vita di ciascun individuo così come per la tenuta democratica dell’intero Paese. E così dovremo continuare a sopportare le storture alle quali assistiamo da anni».
A che cosa si riferisce?
«Penso a una magistratura che di fatto si è sostituita al legislatore. Ma avete visto di quanti magistrati sono popolati i Ministeri italiani? E avete mai riflettuto sull’enorme influenza che questi magistrati distaccati presso i Ministeri esercitano contribuendo alla stesura dei disegni di legge? E poi ci sono i mass media: in televisione si assiste agli show più disparati, si discute di argomenti spesso privi di qualsiasi rilevanza, ma non si trova lo spazio per un approfondimento serio e sistematico sulla giustizia. Insomma, non esiste solo la guerra in Ucraina e non esistono solo certi spettacolini».
Quale immagine del Paese restituisce tutto ciò?
«Quella di un’Italia in cui non si riesce a comprendere l’altissimo valore della giustizia. Un valore legato non soltanto al fatto che essa incide su beni di primaria importanza come la libertà e il patrimonio del singolo, ma anche al fatto che una giustizia inefficiente e inefficace diventa una zavorra per l’economia e per la società nel suo complesso».
Lei ha difeso Enzo Tortora in uno dei casi di malagiustizia forse più famosi al mondo. Tortora, che da presidente del Partito Radicale e da europarlamentare si batté per una giustizia giusta, come commenterebbe il flop di questo referendum?
«Sarebbe profondamente deluso, in particolare da un aspetto di questa vicenda: il mancato raggiungimento del quorum dimostra che, su un tema cruciale come la giustizia, l’Italia non vuole cambiare. Anzi, il Paese fa passi indietro nella cultura giuridica: nel dibattito pubblico le garanzie, i diritti e le libertà fondamentali scivolano sistematicamente in secondo piano; quando si decide di affrontare il tema, si ricorre ai soliti pannicelli caldi».
Ecco, la riforma Cartabia è stata additata da molti come un palliativo incapace di sciogliere i veri nodi della giustizia italiana, a cominciare dalla separazione delle carriere tra pm e giudici: è d’accordo?
«Purtroppo sì. Il punto non è impedire che un pm diventi successivamente giudice o viceversa, ma limitare quell’enorme potere di cui oggi i pm dispongono e si servono per influenzare i giudici. Faccio qualche esempio: la Procura nazionale antimafia ha un potere enorme, sicché è facile che un gip nutra un certo “timore” nei confronti dei magistrati che la compongono. Senza dimenticare che, in seno al Csm, i pm si esprimono sulla carriera dei giudici. In queste condizioni, il giudice non può essere terzo. La riforma Cartabia affronta il problema limitando le occasioni in cui un pm può abbandonare la funzione requirente e dedicarsi a quella giudicante (o viceversa, nel caso di un giudice) nell’arco della carriera. È tutto inutile. Serve una separazione netta delle carriere tra pm e giudici, il che impone l’istituzione di due diversi Csm. Solo così si possono garantire la terzietà e l’indipendenza dei giudici dai pm, offrendo reali garanzie agli indagati e agli imputati».