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La programmazione economica, intesa nel senso di una politica di spesa coordinata, condotta individuando priorità strategiche di sviluppo, non ha mai avuto successo in Italia. Il modello di spesa è sempre stato fortemente condizionato dagli immediati obiettivi politici di consenso più che dalle reali esigenze di un paese ad economia dualistica, che non è ancora riuscito a ridurre i divari territoriali. Complice anche la particolare mentalità nazionale che privilegia l’orizzonte di breve periodo, il giorno per giorno, piuttosto che una prospettiva di lungo termine.

Se a questo si aggiunge la dispersione dei centri decisionali, tra Stato, regioni e vari enti locali, e l’assenza di competenze adeguate nella pubblica amministrazione, il risultato finale colloca il nostro Paese in penultima posizione nella classifica europea della spesa dei fondi strutturali previsti dalla politica di coesione Unione europea.

Alla fine di dicembre 2022, l’Italia ha speso solo il 62% della somma totale di tutte le risorse provenienti dal Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (Fesr), dal Fondo Sociale Europeo (Fse) e dal relativo cofinanziamento nazionale, circa 64,9 miliardi di euro. Se questa condizione di inefficienza persisterà, la posta in gioco è lo spreco non solo delle risorse della coesione territoriale, ma anche dell’ingente massa di fondi promessi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), sulla carta pari a circa 140 miliardi di euro.

Ed è questa la legittima preoccupazione del Governo che intende, almeno così pare, varare un modello (inedito) di controllo centralizzato. Per questo sta eliminando tutti i corpi intermedi, a cominciare dalla soppressione dell’Agenzia per la Coesione territoriale, istituita nel 2013, le cui funzioni, risorse e strumenti sono passate alla Presidenza del Consiglio dei ministri, e sta ridimensionando anche le funzioni della Corte dei Conti, a cui ieri per decreto sta per essere sottratta la funzione di controllo concomitante sulla spesa dei fondi Pnrr, prorogando fino a giugno 2024 lo “scudo erariale” che limita la responsabilità contabile ai soli casi di dolo. Nella stessa direzione si sta muovendo il ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di Coesione, Raffaele Fitto, che dalla fine di maggio incontra i presidenti delle regioni allo scopo di «realizzare una politica di sviluppo e coesione territoriale orientata alla efficiente gestione dei fondi europei e nazionale». Nella sostanza una sorta di delegittimazione delle Regioni come centri efficienti di spesa, e questo senso di sfiducia è stato colto dai presidenti Campania e di Puglia, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, che hanno, sebbene con toni diversi, criticato l’iniziativa. Un significato negativo che non deve essere sfuggito neppure ai presidenti di Regione vicini al Governo che, come convinti assertori dell’autonomia regionale, non desiderano certo ridimensionare il loro ruolo. Non è chiaro ancora come il Governo intenda procedere sulla strada del controllo centralizzato: quali strumenti utilizzerà, quali poteri di intervento diretto, di incentivo e di controllo attuativo? Quelli già predisposti dal governo Draghi, come la cabina di regia, o piuttosto utilizzerà il neo-costituito Ispettorato generale per il Pnrr? E come si inserisce in questo contesto il processo, ormai avviato, dell’autonomia differenziata? Per il momento di certo c’è solo l’attivismo politico-diplomatico del ministro Fitto, e questo contribuisce al clima di incertezza favorendo l’accumulo dei ritardi sul campo.

Rosario Patalano è economista

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